venerdì 21 gennaio 2011

Quando il pensiero si fa parola


Nel settembre 2010, ad Anghiari, siamo stati invitati dal professor Duccio Demetrio alla Libera Università dell’Autobiografia, a presentare Gli anni in tasca, la nostra collana di autobiografie di infanzia e adolescenza. Insieme a noi c'era Luisa Mattia, non per parlare di W la libbertà, l'autobiografia che ha pubblicato con noi, ma per presentare il libro Sono contento che sono un bambino, edito da Rizzoli nel 2009, frutto di un anno di lavoro sulla scrittura autobiografica e i diari dei bambini della scuola elementare Parco di Veio di Roma.
La presentazione è stata coinvolgente, esilarante, interessantissima: chi conosce Luisa sa bene con quanta sapienza sia in grado di coinvolgere l'uditorio, che si tratti di ragazzi, bambini o adulti. Nel marzo del 2011, Luisa sarà ospite di nuovo della LUA, dal 18 al 20 marzo, per tenere un seminario sull'autobiografia dei bambini, dal titolo E tu chi sei? Perché e come condividere con i bambini l’esperienza di un diario, che si rivolge a tutti coloro che si occupano di educazione: insegnanti, bibliotecari, educatori. Il punto di vista di Luisa su scuola, bambini, scrittura, diari, ci interessa molto. Per questo le abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda. L'intervista è un po' lunga, ma le sue risposte sono da non perdere e poi c'è tutto il fine settimana per leggerle.

In Sono contento che sono un bambino, nell'introduzione, affermi che alla scuola “non si richiede il coraggio di conoscere i bambini”. Cosa intendi con questo? E cosa significa conoscere un bambino?

I bambini sono persone molto interessanti. Sono complessi, lievi e profondi al tempo stesso, seguono vie originali di comunicazione con se stessi e con il mondo, “affabulano” la vita, sono tendenzialmente anarchici. La scuola, che pure li accoglie, ha una funzione predefinita di regolarizzazione e normalizzazione. La scuola organizza prima di conoscere, stabilisce standard di apprendimento e di modalità di conoscenza predefinite sulla base di strutture di apprendimento. Un bambino o una bambina che vanno a scuola hanno il compito di entrare in questa “scenografia”, in un ambiente di apprendimento che è pre-disposto e, conseguentemente, ben poco… disposto a sopportarne la creatività e le pulsioni a praticare una conoscenza “disobbediente”. In sintesi, faccio mio un concetto di Fernando Savater, filosofo spagnolo, che definisce la scuola come il luogo in cui si fanno domande sapendo già le risposte. La scuola cerca ciò che sa già. I bambini cercano, si fanno domande, vanno alla ricerca di risposte non sempre prevedibili né previste. In questo senso, ogni bambino è incompatibile con la scolarizzazione e resta, per la scuola, uno sconosciuto. Conoscere un bambino è mettersi in gioco come persone, entrare in una dinamica che non valuta, non ha obblighi di insegnamento ma dà priorità all’incontro, alla conoscenza, alla libertà di espressione e, soprattutto, alla ricerca di un “alfabeto affettivo e comunicativo” che non può darsi a priori ma deve essere composto e riconosciuto vicendevolmente, nell’ambito di una dinamica educativa contraddistinta dalla reciprocità. In poche parole: si può entrare in contatto con un bambino se non si pretende di insegnargli qualcosa, ma, piuttosto, di imparare insieme il “chi siamo”.

Nel libro parli anche di “emozione del conoscere” relativamente all'uso del diario nel lavoro
scolastico. L'idea di autobiografia spesso fa pensare a una dimensione privata, egocentrica. Invece tu sembri collegare scoperta di sé e scoperta del mondo. È la parola scritta che può operare questo miracolo?


I bambini con i quali ho lavorato, di fronte alla proposta di scrivere un diario sono rimasti perplessi. La cautela che hanno espresso si riferiva agli adulti. Sì, proprio quelli che mettono il becco su tutto e di tutto vogliono sapere. L’esperienza che i bambini avevano della scuola non garantiva né discrezione né libertà espressiva. E nemmeno quel minimo di spazio ambientale che potesse garantire un po’ di quiete, di rapporto con se stessi. Abbiamo lavorato – uso il plurale perché è stato un impegno mio e del gruppo dei docenti – per garantire questi elementi basici, dunque: discrezione, libertà espressiva, silenzio. L’obiettivo era – e resta – importante: costruire una complicità con se stessi e con il resto della comunità con la quale si vive. E lo “spazio” è stato il quaderno-diario, un perimetro di carta, una successione di fogli sui quali – in tempi che avevamo concordato e ci eravamo impegnati a rispettare (tutti, adulti e bambini) – si scriveva. C’è stato chi ha subito scritto di sé e chi ha cominciato a raccontarsi attraverso storie inventate, piene di pappagalli parlanti e bambini che si appollaiavano sugli alberi (Calvino le avrebbe trovate…“rampanti”!). Ognuno si teneva per sé le sue pagine. Se voleva. Perché se no, se ne poteva leggere qualche riga oppure – inevitabilmente – si  parlava dei diari e dello stupore – per bambini e adulti – del “tanto da scrivere” che veniva fuori. La parola scritta è doppiamente forte, perché è capace di silenzio ma è anche in grado di fare molto rumore, sia interiormente che quando viene letta alla collettività. La parola scritta si svela e ti svela. Molti bambini si sono stupiti di quel che avevano scritto e di come lo avevano scritto. Hanno scoperto che il pensiero che si fa parola si rivela con naturale forza. Ed è bello lasciarlo andare.

In che modo l'adulto può avviare un bambino a parlare, e a scrivere, di sé senza orientare, anche inconsapevolmente, le scelte, le forme e i contenuti del suo lavoro? Detto in altro modo: in che modo un adulto può essere un interlocutore credibile per un bambino nel processo di scoperta di sé?

Questa è una vera e propria zona a rischio. Quando avviai l’esperienza dei “diari” ci fu un’insegnante che rinunciò a partecipare “perché – mi disse - so che non resisterei alla necessità di leggere e, soprattutto, di correggere i diari dei bambini. Non sono adatta a questo progetto.” Trovai quella decisione rivelatrice di un “vizio” scolastico ma anche – e quanto forte! – di una consapevolezza educativa notevole; di una onestà professionale e intellettuale che era – ed è stata – un nuovo punto di partenza per stabilire un rapporto educativo forte con i bambini e i ragazzi. Un adulto che non sia un impiccione né un irridente “correttore” è l’adulto perfetto per un’esperienza come quella dei diari. Però, l’adulto perfetto non esiste. Ci sono molti educatori imperfetti che posso e debbono pretendere da se stessi una presenza creativa, allegra, non inquisitoria né moralizzatrice. Ogni osservazione/rivelazione di un bambino che scrive il suo diario (e ne parla) è un’occasione di conoscenza, di libertà di incontro. Un modo per rovesciare il rapporto istituzionale  e trasformarlo da scuola che fa domande di cui sa in anticipo le risposte, a scuola (o famiglia) che cerca risposte e accetta di essere “interrogata” dai bambini.

Gli adulti, per ragioni anagrafiche, non attribuiscono molto peso alla memoria dei bambini né al loro desiderio, al loro diritto di possedere una propria storia. Quanto invece per i bambini queste sono importanti?

I bambini hanno una memoria di sé che gareggia in eternità con il big bang e i racconti biblici. Ogni momento della loro vita è stato una “Prima volta”, ogni esperienza una sorpresa, ogni apprendimento una scoperta. Hanno moltissimo da raccontare perché la vita vissuta è fatta di un interminabile piano-sequenza ricco di dettagli, di “minimalia” che invece per un adulto sono un “già vissuto”. I bambini parlano del loro passato al presente: vedo, sento, tocco, capisco, domando, scopro. Un adulto usa spesso un “futuro sapienziale”: vedrai, ti renderai conto, capirai… Considera i bambini “in transito”. La memoria dei bambini è fatta di narrazione di sé attraverso le cose, le azioni, i sapori e gli odori, gli incontri. Si compone come un flusso ininterrotto di eventi e spesso viene raccontata così. Gli adulti ascoltano e, altrettanto spesso, sentenziano: “Non si capisce niente. Confondi tutto”. Invece, siamo noi che confondiamo perché ci aspettiamo un racconto lineare e consequenziale che non è quasi mai prerogativa dei bambini. Anche in questa occasione, un adulto sbaglia perché pretende di usare, nella comunicazione, solo il suo alfabeto formalizzato, le sue strutture linguistiche e concettuali codificate, evitando di prendere in considerazione altre modalità. L’incontro tra adulti e bambini è spesso un confronto tra due culture che raramente porta a un equilibrio “interculturale”.

Sulla base della tua esperienza perché per un bambino è significativa la scrittura di un diario?

Qui la faccio breve: perché è lui/lei, la sua memoria, il suo pensiero e la scoperta che sentimenti ed emozioni possono avere la dignità delle “cose” – peso, forma, funzione, estetica – grazie alle parole che li definiscono.

Che rapporto hanno i bambini con la scrittura?

Dipende dalla scrittura che non è mai una sola. Il rapporto con la narrazione – sia di se stessi che di storie – può essere esaltante o mortificante. E qui sono costretta a ripetermi: scrivere è un atto di per sé liberatorio, potenzialmente sovversivo. Per assumere questa forza, questa energia dirompente, ha bisogno di assimilare regole espressive e ortografiche condivise. Una volta assimilate e usate queste regole, può – e azzarderei a dire che deve – trasgredirle. La scrittura ha bisogno, dunque , di spazi di libertà che la volontà di scolarizzazione mette in discussione. Se si racconta - di sé o di altro – in funzione di una valutazione e di un apprendimento riconosciuto (e questo avviene a scuola), la scrittura corre seri rischi di essere mortificata e di diventare modesta, conformista, sciapa. Al contrario, una scrittura liberata dalla valutazione e dalla codificazione dell’apprendimento, una scrittura che narra , può essere un’occasione di gioia e di rivelazione di sé; può diventare un’allegra necessità, una forma di incontro e di dinamica con il mondo.

Grazie, Luisa.

[Le immagini che corredano questo post sono tratte da: Jutta Gadamer, Pitz, Patz, Putz und noch mehr Bären, Verlag Heinrich Ellermann (1953)]

2 commenti:

Anna ha detto...

Intervista STUPENDA, grazie.
Forse è fuori tema, ma volevo fare un commento da ex-bambina-scrittrice-frustrata-da-anni-di-incomprensioni-scolastiche: non so come sarebbe stato se fosse stato diverso, se ci fossero stati momenti creativi dove il metro del giudizio lasciava il posto a quello di un ascolto più autentico, però devo dire che a me in qualche modo piaceva che la scuola fosse un luogo orrendo. Odiare la scuola mi faceva cittadina di un mondo meraviglioso, di cui gli adulti non potevano fare parte, perché ormai corrotti, malati di adultità. Che ne sarebbe stato della mia anarchia, di quel senso di cose preziose nella tasca che nessun adulto poteva sospettare, se la scuola fosse stata diversa?

Topipittori ha detto...

Anna, tocchi una questione importante, mettendo in luce che l'identità si forma attraverso un processo dialettico. Se trovassimo solo il simile o l'a noi conforme sulla nostra strada, non avremmo mai la possibilità di definirci per opposizione, nel corso della crescita. Invece questo scambio, questa esperienza del conflitto, della ribellione, è fondamentale, insostituibile. Detto questo credo che la scuola, e in generale tutto il processo educativo vada giocato esattamente sul filo di questo equilibrio delicatissimo fra libertà e norma.