venerdì 28 giugno 2013

Walt Disney in salsa grunge

Copertina di Frank Kozik per Houdini dei Melvins.

Quando Frank Kozik si trasferì dalla Spagna al Texas aveva solo 16 anni.
Era incosciente ed entusiasta, ma sapeva bene una cosa: gli piaceva la musica.
Era il 1976, periodo di snodo per il rock poster.
Inizialmente, Kozik prende appunti dai grandi d'Oltreoceano (Jamie Reid su tutti) e inizia a fare punk flyers, manifesti fotocopiati che  promuovono concerti della zona.
La fine degli anni Ottanta arriva presto, e con essa tutta una serie di interessantissimi input musicali: la nascente scena grunge di Seattle è un fiorire di gruppi nuovi ed esaltanti, perchè non promuoverli?
Così Frank prende coraggio, cosa che non gli è certo mai mancata, e dà libero sfogo alle sue fantasie.
Al 1993, risale la pubblicazione di Houdini, lavoro dei Melvins la cui immagine viene affidata al nostro Kozik, catapultato da quel momento in poi nell'Olimpo della grafica musicale. Un disco celeberrimo, come celeberrima è la copertina: due bambini che giocano amorevolmente con un cagnolino. Bicefalo.

Poster di Frank Kozik per concerto dei Nirvana.
Altro grandioso esempio è un poster, sempre datato 1993, realizzato per la data di Houston dei Nirvana: due pargoli in un campo di fiori e farfalle che, mentre il sole splende alle spalle, sono intenti a saltellare con un gatto. Sarebbe adorabile, se non ci accorgessimo della mano robotica della bambina.
Sorge una domanda: da dove viene tutto questo?
Non dobbiamo dimenticare una delle tante sorprese artistiche che l'America ha sfilato dal cilindro, indubbiamente la più importante della nostra epoca: la Walt Disney Company. Sembra incredibile, eppure la connessione c'è.
Da quel fatidico 16 ottobre 1923, data di fondazione dell'Impero Disney, gli Stati Uniti ci hanno educati a un immaginario svincolato da paure e turbamenti, confezionato in una rassicurante pellicola e impacchettato da musiche celestiali.
Buffi animaletti in difficoltà e fanciulle dall'infanzia infelice, rinchiuse in torri o meglio, addormentate per fortuiti incantesimi, non vedono l'ora di essere svegliate e riportare al loro splendido mondo fatto di colori pastello e occhioni grandi.
Il tutto nella 'perfetta' cornice del decennio 1940-1950, vale a dire il momento in cui la Walt Disney Company presta orecchio a ippopotami e funghetti danzanti, senza farsi troppo prendere da quel che intorno sta accadendo.

Fotogramma da Once Upon a Wintertime, episodio
del lungometraggio animato Melody Time, 1948, Walt Disney.

Mai come in quel periodo gli Studios sono attenti ad animazioni spensierate, tralasciando
l'impianto da musical che arriva solo alcuni anni dopo, ossia nel momento esatto in cui il compositore Howard Ashman varca le porte della Company, insegnando al mondo intero cos'è un moderno 'Classico Disney' (basta poco per capire che The King Lion è una trasposizione hollywoodiana dell'Amleto shakespeariano).
Bisogna essere chiari: la spensieratezza è nel segno. Le trame molto spesso sono tutt'altro che felici: Dumbo non ha vita facile, e nemmeno Biancaneve. Più l'argomento è spinoso, più l'immagine è bucolica.
Avviene così che anche per Fantasia, progetto faraonico e impegnativo, sia nella musica –
Debussy, Bach, Beethoven, Tchaikovsky, Stravinsky, Schubert eccetera – che nei soggetti – dagli spiriti oscuri di Night on Bald Mountain, agli inquietanti incantesimi di The Sorcerer's Apprentice, passando attraverso la formazione della terra di The Rite of Spring, e i centauri di The Pastoral Symphony – mediato sapientemente da fondali ad acquarello e creature surreali.

Fotogramma da The Pastoral Symphony, episodio del lungometraggio
animato Fantasia, 1940, Walt Disney.

Un immaginario per niente trascurabile, specie riguardo alla grafica da concerto degli anni Novanta.
I mass media tutti, dal fumetto al cartone animato, sono fondamentali per il poster americano del momento, che architetta una parodia sarcastica fino al cinismo, ma proprio per questo pura e autentica. Gli animali, tradizionalmente beniamini dei più piccoli, si guadagnano un posto d'onore anche nel mondo dei grandi, con deformazioni impensabili.
Ecco che l'infanzia gioca ruolo fondamentale nella comunicazione, e diventa la chiave di lettura più immediata e semplice con cui decifrare un universo musicale.
Non musica tranquilla, non musica facile. Canzoni di rabbia e foga, canzoni grunge, sporche. Frank Kozik inquadra un preciso modo di raccontarle, sia esso bello o brutto non importa.
Perché o funziona o non funziona. Nel suo caso, si può dire che sia arrivato dritto al punto, con l'intenzione di sdrammatizzare il disagio attraverso un candido visino, e con la voglia di creare una frattura così forte da sconvolgere lo spettatore.

Fotogramma da Peter and the Wolf, episodio del lungometraggio
animato Make Mine Music, 1946, Walt Disney.
Sicuramente, con la precisa intenzione di suggerire che ciò che sembra indifeso, molto spesso racchiude una forza sovrumana.

* Martina Esposito (Napoli, 1988) adora disegnare. Lo fa da quando è nata, lo ha fatto durante l'Istituto d'Arte, e ha continuato a farlo durante il Triennio di Scenografia e il Biennio di Illustrazione all'Accademia di Belle Arti di Bologna. Disegna perché disegnare la diverte, e perché il disegno è una lingua che le piace parlare. Adora anche la musica, ma le riesce meglio disegnarla che suonarla, così nel 2011 entra a far parte di Italian Poster Rock Art, organizzazione toscana che promuove poster artist italiani che fanno grafica da concerto. Organizza una mostra mercato all'anno, crea loghi e locandine per eventi e parallelamente collabora per alcune scenografie. Tramite Italian Poster Rock Art conosce alcuni degli studi grafici più importanti d'America, dal Methane Studios al Firehouse, autori di artwork per Bob Dylan, U2 e molti altri ancora. Con Topipittori intraprende uno collaborazione tesa a divulgare l'influenza dell'illustrazione e dell'arte in generale, sulla grafica da concerto, dagli anni Cinquanta a oggi.

mercoledì 26 giugno 2013

Contenti come Cornia in bicicletta

Ugo Cornia in bicicletta interpretato da Eleonora Antonioni (che non l'ha mai visto).

Leggere Ugo Cornia è come andare in un centro benessere. Ma un centro dove si può mangiare quello che si vuole, bere quello che si vuole e persino fumare. Non è necessario socializzare e non è prevista alcuna sauna. Si può non fare movimento, evitare le cure estetiche, i massaggi e le pratiche di rilassamento. Insomma, un centro benessere vero, dove si sta proprio bene e il sentirsi bene deriva dal fatto che, curiosamente, nel gran caos universale, si scopre di essere contenti.

Contenti almeno come Cornia quando va in bicicletta per Modena. L’andare in bicicletta per Modena è ciò che accomuna Scritti di impegno incivile e Autobiografia della mia infanzia che sono i due libri che Ugo Cornia leggerà venerdì, 28 giugno, alle ore 19, a Spazio B**K. Sentire Cornia che legge è quasi meglio che leggere Cornia. Perciò ci sembra che proprio non si possa non andare, il 28 sera da B**K. Magari si può anche andare in bici. E poi sulla copertina dell’ultimo libro di Cornia c’è un elefante bellissimo, di cui è proprio impossibile fare a meno.

Un piccolo esempio di come Cornia è contento in bicicletta, tratto da Autobiografia della mia infanzia.

E così ci dedicavamo sempre e con piacere a queste nostre attività parateppistiche, anche se trenta anni fa il traffico a Modena doveva essere meglio che adesso, oppure la gente era più abituata a certe cose, perché per esempio, anche in bicicletta, e anche la bici ha significato l’apertura di una grande epoca, soprattutto d’estate, e soprattutto dalle due alle quattro, quando era categorico il divieto di uso del cortile, e lì, la bici era soprattutto con Gianni Pecchini, che in bici abbiamo fatto grandi esplorazioni, ma tra l’altro mi viene in mente adesso, cioè a dire la verità mi è venuto in mente ieri sera mentre ero in ascensore e stavo salendo a casa e allora, scrivendo questa specie di Autobiografia della mia infanzia, che all’inizio dicevo no, non ce la posso fare a scrivere un’autobiografia della mia infanzia, e invece dopo iniziavano a tornarmi in mente un sacco di cose, e alcune mi commuovevano anche molto mentre ci pensavo, e forse se uno mi avesse guardato da fuori mi vedeva un po’ con gli occhi lucidi, anche se a ricordarle son belle addirittura anche le cose brutte, e allora comunque mi era venuto in mente un pomeriggio, e lì eravamo di sicuro a fine giugno, perché me lo ricordo e son sicuro che si trattava di fine giugno, e sono anche sicuro che dovevo compiere undici anni, e non so perché ma i miei mi avevano dato da tenere la Mari, mia sorella, e poi dovevano essere andati da qualche parte, mentre c’era Gianni che sua madre gli aveva dato da tenere William, suo fratello piccolo, che aveva un anno in meno di mia sorella, e soltanto che sia io che Gianni avevamo in programma di andare in un negozio in viale Storchi, che si chiamava Mary
Model ed era un negozio di modellismo perché dovevamo guardare o comprare dei modellini, e da viale Storchi a casa nostra ci saranno non più di tre chilometri, ma era una distanza che andarci a piedi con mia sorella e William non sapevamo come fare e anche caricarli in bicicletta non ci riuscivamo e quindi pensavamo a come fare, ma mentre pensavamo a come fare William e mia sorella avevano socializzato tra di loro, e allora poi ci è venuta questa bellissima idea di chiuderli nel mio garage per mezz’ora che andavamo di corsa alla Mary Model e poi tornavamo a riaprirli, e così li abbiamo messi nel mio garage, con la luce accesa, e tra l’altro c’erano delle brande, contro il muro del garage, quindi gli abbiamo anche aperto due brande così se volevano potevano far finta di dormire, e poi abbiamo chiuso a chiave la porta del garage e siamo partiti, soltanto che quando siamo stati alla fine di via Medaglie d’oro, dove c’è il Parco, secondo me era molto più breve andare a sinistra verso Vittorio Veneto, mentre per Gianni era più breve andare verso Largo Garibaldi, poi fare la via Emilia, e non ci siamo riusciti a mettere d’accordo, quindi poi ci avevamo scommesso non so cosa su chi arrivava primo e ognuno era andato per la sua strada. E poi sono arrivato alla Mary Model e lì guardavo la vetrina, e poi ho guardato anche dentro, e Gianni non c’era, e sono tornato a guardare la vetrina, e dopo venti minuti Gianni non era ancora arrivato, e allora ho aspettato ancora altri cinque minuti e poi ho detto adesso torno indietro per la via Emilia fino a Largo Garibaldi, cioè per la strada che voleva fare Gianni, e infatti poi sulla via Emilia, all’altezza di piazza Mazzini, vedo Gianni che scancherava nella bici, e la bici c’aveva tutta la ruota davanti scarlancata, e gli ho chiesto che cosa aveva fatto, e allora lui ha detto che stava andando fortissimo per la via via Emilia quando un autobus di merda aveva inchiodato per la fermata e lui se l’è visto fermo lì davanti e ha frenato, soltanto che era andato a sbattere sull’autobus e si era imberlato tutta la ruota, e dopo era sceso il guidatore a vedere che cosa era successo e Gianni gli aveva detto se era il modo fermarsi così, a inchiodata, e il guidatore invece voleva anche dargli una sberla e avevano un po’ litigato per due minuti, poi il guidatore era risalito sull’autobus e se n’era andato, anche perché sull’autobus c’erano tutti i passeggeri da portare, e però dopo un po’ che tornavamo indietro con le bici a mano, ci è anche venuto in mente di mia sorella e William chiusi in garage, e c’è venuto in mente che magari piangevano e piantavano qualche grana e Rebuttini si accorgeva che li avevamo chiusi in garage per farci gli affari nostri, e così ci eravamo messi a correre tirandoci dietro le nostre bici, e invece poi quando siamo arrivati William e mia sorella erano nella branda abbracciati che si dicevamo delle cose, e così via...

lunedì 24 giugno 2013

Pensare per immagini

Luigi Ghirri, Grostè, 1983. Biblioteca Panizzi. Fototeca.

Luigi Ghirri racconta che quando era un bambino, le fotografie che gli piacevano di più erano quelle di paesaggi, negli atlanti, accanto alle carte geografiche. In queste immagini si era accorto che, “immancabile, appariva un piccolo uomo sovrastato da cascate, monti, rocce, alberi altissimi e palme grandiose, o sul ciglio di un burrone. Questo omino lo trovavo poi nelle cartoline, che raffiguravano piazze più o meno celebri. Oppure arrampicato su monumenti storici, o disperso nel foro di Roma. Quello dell'omino era uno stato di continua contemplazione del mondo, e la sua presenza nelle immagini conferiva a queste un fascino particolare. Non solo era il metro di misurazione delle meraviglie rappresentate, ma grazie a questa unità di misura umana mi restituiva l'idea dello spazio: io lo vedevo in questo modo e credevo attraverso questo omino di comprendere il mondo e lo spazio.”

Luigi Ghirri, Versailles, 1985. Biblioteca Panizzi. Fototeca.

Queste parole sono contenute nello scritto di Luigi Ghirri Fotografia e rappresentazione dell'esterno, presente nel catalogo Pensare per immagini. Icone Paesaggi Architetture, edito da Electa in occasione della omonima mostra in corso al Maxxi, a Roma, inaugurata il 24 aprile scorso e aperta fino al 27 ottobre.
In esse si trova definita con precisione di cartografo, la misura del territorio attraversato ed esplorato da Ghirri durante il suo lavoro, e il bagaglio e la strumentazione necessari a fissarla. C'è lo spazio, come campo del finito e dell'infinito, c'è l'attenzione come disciplina, pratica dello sguardo, interrogazione del mistero del visibile, c'è una attitudine alla contemplazione come risposta alla densità misteriosa dell'immagine e del reale, e la necessità di osservare l'osservatore, di guardare l'atto del guardare, punto di partenza di ogni conoscenza del mondo.

Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Lucerna, 1971. Collezione Eredi Ghirri.

Nelle foto di Ghirri sono tante le figure umane prese di spalle, ritratte mentre, semplicemente, guardano. E quando queste non sono presenti, si ha sempre la percezione di uno sguardo, di una presenza attenta, non dietro l'immagine, ma davanti a essa, nell'atto stesso di osservarla. Come se Ghirri, quell'omino degli atlanti, dall'interno delle fotografie l'avesso portato all'esterno, non più visibile, ma percepibile, percepibilissimo come misura della realtà, osservatore latente, custode della stessa possibilità di essere e di darsi del visibile.

Luigi Ghirri, Engelberg, 1972. Centro Studi
e Archivio della Comunicazione
dell'Università degli Studi di Parma.
La mostra al Maxxi è imperdibile non solo per gli amanti della fotografia, ma per chi è interessato all'immagine e soprattutto al tipo di conoscenza e di approccio che questa sottende nella relazione con il mondo, reale e rielaborato dall'uomo attraverso le mille forme della rappresentazione. Un'idea contenuta nel titolo della mostra, Pensare per immagini, estrapolato da una riflessione del fotografo modenese: “Come pensare per immagini”. In questa frase è contenuto il senso di tutto il mio lavoro.”
Luigi Ghirri, a cui tempo fa abbiamo dedicato un post, è stato, fin dai suoi esordi, un fotografo anomalo. Geometra, autodidatta, strinse contatti ed ebbe amicizie più nel mondo dell'arte che in quello della fotografia al quale in parte si sentiva estraneo. Oltre che fotografo, fu insegnante, collezionista appassionato di immagini, editore (fondò le edizioni Punto e virgola, dedicando un'approfondita riflessione alla relazione fra libro e immagine), curatore e organizzatore di mostre, e nel corso di tutto il suo lavoro utilizzò la scrittura come pratica di pensiero necessaria e strettamente connessa al vedere (le sue riflessioni sul paesaggio italiano, per fare un esempio, sono imprescindibili).

Luigi Ghirri, Modena, 1974. Collezione Eredi Ghirri.
Luigi Ghirri, Ferrara, 1981, e Modena, 1973, Collezione Eredi Ghirri.

In questa mostra quel che davvero è interessante, è l'allestimento che intreccia le parole di Ghirri alle fotografie, ad accompagnare il visitatore in un percorso eccezionale per ampiezza e profondità, che dà conto di cosa significhi, nelle sue diverse implicazioni, quel “vedere con chiarezza” che era per Ghirri la fotografia. Perché il rimando fra le une e le altre innesca una esperienza di visione articolata, complessa, di grande intensità, fra visioni, evocazione, memoria, intuizioni, riflessione, stupefazione, contemplazione, epifanie.

Luigi Ghirri, Brest, 1972. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Bologna, 1973. Collezione Eredi Ghirri
alla Biblioteca Panizzi. Fototeca.
In questo senso l'importanza che la fotografia di Ghirri ha avuto, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, appare con evidenza, per una capacità poetica che fa venire in mente quello che Heidegger spiega in La poesia di Hölderlin a proposito dell'essenza stessa del linguaggio poetico: «Questo nominare non consiste però nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l'ente riceve solo allora attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è.»

Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1973. Collezione Eredi Ghirri
alla Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Lido di Volano, 1988. Collezione Eredi Ghirri.

Nel brano di Luigi Ghirri che riporto, tratto da L'opera aperta, presente nel catalogo, si trovano gran parte dei punti fondamentali che nel tempo hanno connotato la sua riflessione, e a mio avviso valgono non solo per la fotografia, ma, tout court, per l'immagine, e quell'attitudine umana a osservare, rappresentare, riprodurre il reale.

Ho sempre ritenuto che la fotografia fosse un linguaggio per vedere e non per trasformare, occultare, modificare la realtà.
Ho lasciato che fosse la sua magia a rivelare al nostro sguardo gli spazi, gli oggetti, i paesaggi che voglio rappresentare.
Fiducioso che uno sguardo libero da acrobazie formali forme di coercizione, elucubrazioni, riesca a trovare un equilibrio fra consapevolezza e semplicità.
Trovare così, all'interno della geometria e della fissità dello spazio della camera oscura, la misura della rappresentazione dell'esterno.
Nessuna violenza, choc visivo-emozionale, o forzatura, ma il silenzio, la leggerezza, il rigore per poter entrare in rapporto con le cose, gli oggetti, i luoghi. […]

Luigi Ghirri, Cittanova, 1985. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Tra Soragna e Fontanellato, 1986. Collezione Eredi Ghirri.

Non mi sono mai trovato molto d'accordo con molta parte del mondo della fotografia.
Troppo spesso questa declina le proprie potenzialità per rifugiarsi nell'emozione del colore, nella ripetizione ossessiva, nell'uso ripetuto e stucchevole dello stile, nella catalogazione, nelle esasperazioni formali.
Certi aspetti maniacali mi sembrano pericolosi: la fotografia come afasia del vedere, anticamera per l'anestesia dello sguardo. La necessità di essere originali, creativi a tutti i costi, la disperata ricerca del nuovo e di un marchio di fabbrica, credendo che un autore si possa riconoscere perché imprime un editing visivo sul mondo moderno. Anziché cercare di introdurre tempi e modalità nuove nell'operare, la fotografia è entrata nello spazio rigido della riproduzione di se stessa. Forse vale la frase di Shakespeare: “Che ironia della sorte, avere una vista così buona e finire in un vicolo cieco!”
[…]

Luigi Ghirri, Masone, Casa Benati, 1985. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Studio di Girgio Morandi, 1989-1990. Collezione Eredi Ghirri.

Le recenti tecniche visuali hanno provocato una mutazione della qualità dello sguardo, le immagini elettroniche, le tecniche video sembrano relegare la fotografia nella soffitta dell'antiquariato, ma nonostante tutto, io credo che abbia ancora davanti a sé molto spazio. I luoghi, l'esterno, l'interno, tutto sembra essere attraversato da stimolazioni visive sempre più veloci e frequenti, ma questo ci impedisce di vedere con chiarezza. In mezzo a questo mare eterogeneo, in questi luoghi che sono sempre di più totale dominio del “territorio dell'analogo” e dove la moltiplicazione assume un ritmo sempre più vertiginoso, possiamo vedere nella fotografia un importante momento di pausa e riflessione. La fotografia come momento di riattivazione dei circuiti dell'attenzione, fatti saltare dalla velocità dell'esterno.


venerdì 21 giugno 2013

Il Rosso e il Nero

Disegno di Antonella Abbatiello per il cortometraggio
animato Icaro, 1987.
.
La seconda lettera di questo inizio d'estate (la prima qui) ci arriva da Antonella Abbatiello, che, mossa dal post su Le Horla, riflette sui colori e la capacità di utilizzarli (in particolare il rosso. E sulla base di queste riflessioni, decide, dopo 25 anni, per la prima volta di tirar fuori dai cassetti il suo Icaro. Ringraziamo Antonella per il suo messaggio, i suoi pensieri e la possibilità di far conoscere sul nostro blog, dopo tanto tempo, questa animazione (selezionata da numerosi festival internazionali dedicati al cinema d’animazione, fra cui Shangai International Animation Film Festival 1988, e Los Angeles International Animation Celebration 1989). Le immagini che accompagnano l'articolo ci sono state mandate da Antonella, e sono quelle che hanno ispirato il segno, le forme e i personaggi di Icaro, mentre l'autrice lo stava progettando e realizzando.



Cara Giovanna,

ho letto il tuo articolo su Le Horlà, è molto bello.
E sono molto belli i disegni di Caimmi, come ti dicevo quando abbiamo fatto insieme la passeggiata per Roma.
Ti dicevo che molti anni fa (almeno venticinque) avevo cominciato a illustrarlo, volevo farne un film d’animazione. Ero assolutamente affascinata da Maupassant e soprattutto da questo racconto. Così bello e così pericoloso.

Odilon Redon, Le diable, illustrazione per
 La tentation de saint Antoine,
di Gustave Flaubert, 1896.
Lo immaginavo esattamente come lo ha illustrato Caimmi, per questo mi ha così impressionato il suo lavoro. Sono emozionanti e misteriosi questi collegamenti fra menti diverse in momenti diversi.
Comunque non ci riuscii, era davvero troppo per me, ero troppo giovane e non avevo gli strumenti tecnici sufficienti. Però realizzai il mio primo cortometraggio Icaro, esprimendo come potevo la sensazione inquietante di quel racconto.
Icaro è l’unico mio lavoro dominato dal bianco e nero.
La cosa che mi stupisce è che tutto questo (fascinazione per Maupassant e realizzazione di Icaro) avveniva mentre lavoravo nello studio di Luzzati, immersa nei suoi colori sfavillanti e ‘spaventosi’ per me, che avevo paura del rosso.
Dopo la ‘cromoterapia’ luzzatiana, durata otto anni, ho superato la fascinazione per l’oscuro Maupassant. Ogni tanto ci sono ricaduta, in queste fascinazioni (Pasolini, fra i vari), ma ce l’ho sempre fatta, a uscirne. Con i colori di Luzzati, di Matisse e di Mirò. Ricordo che oltre al Rosso, attraverso Luzzati, volevo conquistare la spontaneità, la libertà del gesto. Rosso=Libertà? Può essere.
Mi ha fatto piacere ripensare a queste esperienze, che fanno parte della mia storia e che mi hanno aiutato e mi aiutano a capire il mio lavoro e le sue vene nascoste.

Un abbraccio
Antonella

ps
Ti mando Il Rosso, una breve testimonianza sull’argomento, scritta nel 2009 per il catalogo della mostra Emanuele Luzzati, Fantasie, al Museo Luzzati di Genova.

Odilon Redon, Parsifal, 1891.
Odilon Redon, L’aile, 1885.



















 

Odilon Redon, Pégase captif, 1889.
Odilon Redon, illustrazione per  La Tentation de
de saint Antoine
, di Gustave Flaubert, 1896.

Il Rosso

Come sanno tutti quelli che lo hanno conosciuto, davvero Lele era un uomo speciale. Straordinariamente geniale e mite, consapevole del suo talento e insieme modestissimo. Una grande lezione per una giovane allieva.
Ho avuto la fortuna di lavorare nel suo studio romano per otto anni e  ho imparato – assorbito, rubato, respirato – moltissime cose.
Parlava poco e disegnava molto, esprimendo la sua visione semplicemente con il suo modo di essere e di fare.
Se dovessi però far stare in  una sola parola quello che Lele mi ha dato direi "
il Rosso". Lele mi ha insegnato “il Rosso”. Ero una seria, rigorosa ragazza, fresca di diploma di Accademia, che praticava il bianco e nero e molto grigio, incapace di usare i colori vivaci, soprattutto il Rosso. Osservare Lele dipingere con assoluta spontaneità e felicità creativa, e poi dover io riprodurre mille volte i colori della sua sfolgorante e vivacissima tavolozza, mi ha  guarito dalla paura del Rosso.
Se oggi nei miei disegni c’è "il Rosso", ma anche il Blu, il Verde, il Giallo… lo devo a Lele, straordinario maestro del colore, e molto di più.


Antonella Abbatiello, illustrazione per Farfalla, Fatatrac.

Antonella Abbatiello, illustrazione per Maremè, Fatatrac.

mercoledì 19 giugno 2013

Un’illustratrice fra i musicisti

Illustrazione di Marcella Brancaforte per Castelli in aria.
[di Marcella Brancaforte]

Quando Silvana Sola, nel 2010, recensì il mio libro illustrato per Sinnos A pescar canzoni, scrisse: “Conoscevo il lavoro di illustratrice di Marcella, mi è sempre piaciuto il suo segno forte e deciso, ma non pensavo di rincontrarla in una band tascabile, non pensavo, ascoltando il cd allegato al libro A pescar canzoni, viaggio per terra e per mare nella canzone popolare, di scoprirla cantante.”
In effetti, le contaminazioni tra le arti mi piacciono. Come illustratrice, il mio percorso a fianco di progetti che narrano la musica non inizia oggi: la musica è sempre stata una mia grande passione, insieme ai libri illustrati, al teatro e al circo (dove, bambina, sognavo sempre di scappare per fare la trapezista: fortuna che, crescendo, mi sono ridimensionata!).

Ho iniziato a camminare cantando, e cantare mi faceva sentire più sicura sulle mie gambine: da sempre la musica è  il mio mondo felice. La musica in tutte le sue forme, ma soprattutto il canto e le voci.
Ho sempre cantato, e ogni volta che ho cambiato città, appena mollate le valigie, prendevo il telefono e cercavo un coro in cui cantare. Se c’era un coro, ero a casa. È sempre stato così.


Molti miei libri illustrano la musica o nascono dopo avere ascoltato un pezzo particolarmente suggestivo; un mio libro è diventato anche uno spettacolo di canzoni e cantare è, ancora oggi, la mia gioia, insieme al disegno.

Immagine da A pescar canzoni.
La musica, in tutte le sue forme, è una delle principali ragioni per cui penso valga la pena vivere. Per un ragazzo in crescita è una disciplina e una opportunità formativa importante, ma troppo spesso trascurata in Italia.
Anche per questo, consiglio caldamente a chi ha dei bambini e si dovesse trovare a passare dalle parti di Tuscania, in Alta Tuscia, ai primi di agosto, di pensare a una sosta di un’intera settimana.




Locandina di Marcella Brancaforte
per il teatro San Carlo di Napoli.
 Durerà, infatti, una settimana il nostro  Canto Ascolto e Creo, nell'ambito di Campus delle Arti, pensato come laboratorio per bambini e ragazzi che vogliano sperimentare un avviamento gioioso alla musica, alla comunicazione per immagini e all’illustrazione: una settimana in un mare di musica, lontani dal frastuono delle spiagge agostane. Un'occasione per regalare ai propri figli un’esperienza ricca e vera, di ascolto, partecipazione e ispirazione.  Tuscania è a 10 minuti di auto dal Lago di Bolsena e a 25 minuti dal mare di Tarquinia.

Al laboratorio possono essere iscritti anche ragazzi che non sanno suonare alcuno strumento

Due parole per spiegare meglio, in cosa consiste il laboratorio.


Dal 1 all’8 agosto 2013, Tuscania  diventa per il terzo anno consecutivo, la 'città della musica', ospitando il Campus delle Arti, un progetto dedicato ai giovani, ai giovanissimi e alla musica, sotto la direzione artistica di Angela Chiofalo: per una settimana, dal pomeriggio a tarda sera, i concerti di maestri e allievi si avvicendano, tra le chiese romaniche, piazza del Belvedere e, la sera, nell’Anfiteatro del Parco di Torre Lavello.

Per una settimana, i ragazzi del Campus, e di riflesso tutta la popolazione residente e i turisti di passaggio, vivono una esperienza musicale a 360°, immersi nel contesto di una cittadina a misura d’uomo (e di ragazzo). Il silenzio di Tuscania, le sue chiese e i suoi paesaggi, diventano il contesto ideale per l'ascolto.

Quest’anno sono stata coinvolta per offrire una esperienza laboratoriale rivolta a coloro che non necessariamente suonano uno strumento, ma che desiderino vivere una esperienza che unisca musica e arti figurative.

Durante il Campus, il gruppo di allievi si incontrerà per una settimana, lavorando 'a bottega' con i maestri. Formazione e produzione sono un binomio inscindibile di questo evento, e il lavoro svolto troverà la sua conclusione nella rappresentazione della Geneviéve di Eric Satie, operina che vedrà in scena i giovani artisti del Campus, l’orchestra e i loro maestri.



Campus delle Arti 2011, fotografie di Marco Scataglini.

Il nostro laboratorio si divide in 3 parti:

Canto/Officina Corale
È l’incontro tra un corso e un laboratorio, e ha l'obiettivo di far scoprire la gioia di cantare insieme: uno spazio musicale dedicato alla pratica corale e aperto a studenti e docenti per fare musica con la propria voce. Tutti sono i benvenuti: chi non ha mai cantato in coro, chi studia uno strumento e vuole affinare le proprie capacità ritmiche, melodiche e polifoniche, chi ha competenze musicali. Canto/Officina Corale è condotto da Carla Conti, docente di direzione di coro e repertorio corale al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma.

Locandina di Marcella Brancaforte
per spettacoli di burattini alllestiti dalla
associazione La Metaphora.


Ascolto
È il laboratorio, che io stessa tengo, insieme a Elena Mozzetta. In un percorso fra immagini e musica, lavoreremo con gli allievi per orientarci tra colori ed espressione sonora, per recuperare le analogie tra suono e segno, per imparare a rappresentarle, recuperando la gestualità istintiva.

Elementi base per il lavoro visivo che si intende svolgere con i ragazzi saranno carta, colore, acqua e il segno mosso dai suoni.

In riferimento all’ascolto della Geneviève, i ragazzi saranno invitati a creare una partitura per suoni e segni: disegneremo molto, a orecchie ben aperte.


Fabio Porroni durante lo spettacolo A pescar canzoni.




Elena Mozzetta è musicista, attrice, regista e insegnante, dotata di straordinaria sensibilità per la messa in scena di spettacoli musicali con i ragazzi. Durante la settimana di Campus, il laboratorio di Ascolto impegnerà i ragazzi per due ore al giorno.

Creo
La terza parte del laboratorio è tenuta da Eva Goed e Kurt Pint, scenografi e costumisti viennesi di provata esperienza, che con i ragazzi realizzeranno oggetti scenici e accessori per lamessa in scena dell’operina di Satie: un lavoro che, attraverso un obiettivo concreto, mira a risvegliare la creatività, utilizzando materiali diversi, imparando ad affinare la manualità fine.

lunedì 17 giugno 2013

Volare alto, altissimo!

Edward Lear, in un ritratto di Wilhelm Marstrand.
Provate a immaginare di essere nati da una madre che non vi ha desiderato (forse a ragione avendo avuto altri venti figli), e vi abbandona alle cure di una sorella, di ventuno anni maggiore di voi. Immaginate anche di avere un padre, che fa una professione rispettabile, ma commette la leggerezza di non onorare i propri debiti e finisce in prigione. Immaginate di avere il primo attacco di epilessia a sei anni e il primo episodio di depressione acuta a sette. Immaginate anche di soffrire di bronchite cronica e di asma. E adesso una domanda: vi resterebbero il tempo e  la minima voglia disegnare, disegnare, disegnare?

Questa che pare proprio una triste vicenda è, in estrema sintesi, la vita di Edward Lear. E, a conoscerla più a fondo, non sembra poi neanche troppo triste. In fondo, può capitare di peggio. Per esempio, non saper disegnare, non saper scrivere, non saper far ridere i bambini.

Edward Lear, pagina da A Book of Nonsense.

Ecco, proprio quest'ultimo talento ha offerto a Lear notorietà nel campo della letteratura per ragazzi, della quale è stato un grande innovatore: è stato lui, infatti, a dare dignità al nonsense e a far scaturire dal nulla una tradizione letteraria che avrebbe affascinato Lewis Carroll, Spike Milligan, Douglas Adams e, dalle nostre parti, con non troppa fortuna invero, Toti Scialoia e Fosco Maraini.

Edward Lear, disegno autografo per A Book of Nonsense.

Insomma, questo ragazzino malinconico, fortemente miope, debole di petto, troppo alto e con un naso elefantino (come lui stesso lo descrive) aveva imparato l'unica cosa che la sorella Ann gli poteva insegnare (poiché era l'unica insegnata alle ragazze della prima età vittoriana): l'acquerello. E dato che era povero in canna e si doveva guadagnare da vivere, a 15 anni cominciò a vendere disegni, «in cambio di pane e formaggio», ai commercianti e ai passeggeri delle corriere a cavalli. In qualche modo, spinto dalla sua passione per gli animali, cominciò a frequentare lo zoo di Londra e i naturalisti che vi lavoravano. Apprese così un'applicazione più proficua del suo talento, e divenne consapevole che c'era un pubblico disposto a pagare per buone stampe naturalistiche.

Edward Lear, dettaglio di Corvus corax, da The Birds of Europe.

Edward Lear, Fenicottero, Field Museum Library/Getty Images.

A Lear mancava quasi tutto, ma certamente non il coraggio, se, a 19 anni, cioè nel 1832, si diede a pubblicare una monografia sui pappagalli (venduta in abbonamento), disponendo solo di una stanza in affitto, un'unica pietra litografica in formato folio imperiale (55 x 76) e non abbastanza soldi per pagare l'affitto del torchio. Disegnava direttamente sulla pietra, nella sua stanza; poi se la caricava in spalla, andava alla stamperia, assisteva alla stampa, affidava i fogli ai coloristi, si caricava di nuovo la pietra in spalla, tornava a casa, cancellava il disegno con il carborundum e ricominciava da capo. Ce n'era abbastanza da farsi venire un esaurimento nervoso. Come dire, un tempo avevano una certa tempra.





















L'avventura finì male: le Illustrations of the Family of Psittacidae, or Parrots (42 tavole litografate e colorate a mano) fu un successo per la critica che lo consacrò, insieme a John James Audobon, il più innovativo disegnatore naturalistico della sua epoca. Ma fu un disastro finanziario, perché Lear non era capace di farsi pagare dagli abbonati.





















Gli esiti furono due: uno disastroso e l'altro fausto. Il suo lavoro fu acquistato da John Gould, un naturalista abbastanza spregiudicato che, stanco di sfruttare solo il talento grafico della moglie Elisabeth, si diede a schiavizzare Lear per le sue opere di ornitologia, tentando - con successo - di accaparrarsene ogni merito. Ma, allo stesso tempo, Lear, grazie alla fama acquistata, venne chiamato dal Duca di Derby a Knowsley Hall, per dipingere gli animali del suo serraglio privato.






















Edward Lear, studi di pappagalli, Houghton Library, Harvard University.

Knowsley era frequentata da stuoli di nipoti e pronipoti del vecchio duca, che sembrava avessero la propensione a scomparire, per stare in compagnia di quello strano tipo che, oltre a disegnare animali, confezionava per loro giochi di parole illustrati da disegni divertenti, dove si trovano persone che si strappano i capelli, mangiano migliaia di fichi, si suicidano con una forchetta, muoiono di dispiacere, hanno incubi spaventosi, finiscono arrostiti in un forno o mangiati da un cucciolo o tagliati in due (ma rimessi insieme da una potente colla).

Edward Lear, pagine da A Book of Nonsense.

Quando la cosa fu scoperta, Lear venne invitato ai piani superiori, in modo che potesse intrattenere la nobile famiglia al completo. A Book of Nonsense nacque così, con naturalezza, dal talento e dal piacere di stare con i bambini e di farli ridere. Sembra poco, ma non lo è.



Un talento e un piacere che non si sono persi e che hanno accompagnato Lear nei suoi viaggi intorno al mondo (finanziati dal duca, che doveva essersi divertito davvero molto in sua compagnia, per convincersi a sborsare tutti quei quattrini): ogni volta che faceva conoscenza con un bambino, Lear non riusciva a resistere e gli regalava disegni di buffi uccelli, resoconti grafici di vicende strampalate, autobiografie surreali. Per esempio, una volta, in un hotel di San Remo...






Sei disegni di uccelli appartenenti alla serie di sedici,
disegnata da Lear nel 1880 per Charles Pirouet, un bambino
che soggiornava nel suo stesso hotel.