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mercoledì 16 ottobre 2013

La più buona colazione del mondo

A volte viene un po' da vergognarsi a pensare come è venuta l'idea di un libro. La più buona colazione del mondo si è materializzata un pomeriggio in cui chiacchieravo con Massimo Caccia su skype, per risolvere una faccenda legata a un libro che penso ormai rimarrà nel mito, nel senso che sono anni che ne parliamo e anni che non lo facciamo. Nel frattempo ne facciamo altri, come questo, appunto. Massimo stava parlando, e io, distratta, mi sono accorta che alle sue spalle c'era un quadro che mi sembra proprio fosse identico all'immagine che oggi è in copertina. Una tazza da cui spunta una lucertola. Sarà perché mi è sempre rimasta in mente una lucertola che quando ero piccola, al mare, tutte le mattine faceva colazione con noi che ci immobilizzavamo come statue, perché lei potesse serenamente consumare il suo pasto fra i nostri piedi. Fatto sta che, vista quell'immagine, praticamente il libro mi sembrò fatto.

Massimo che, come Scarabottolo, più lavora in economia più è contento, sia perché è pigro sia perché preferisce stare sull'essenziale, quando iniziai a strepitare “Animali domestici! Animali domestici!”, dichiarando che quello sarebbe stato il titolo del libro, abbozzò. E fu d'accordo che una galleria di animali associati agli oggetti di casa sembrava una idea promettente, visto che sono anni che praticamente non dipinge altro. Naturalmente bisognava trovare un filo conduttore, un'idea che tenesse insieme il libro. Così, si mise (quasi subito) all'opera.


Qualche tempo dopo ci mostrò il progetto: una sfilata di animali e oggetti legati ai riti cucinieri del mattino, con finale a sorpresa. Il libro ci sembrò perfetto. Fummo tutti d'accordo che non avrebbe avuto testo: seguendo la logica e l'atmosfera silenziosa di C'è posto per tutti, pensavamo che le immagini, anche in questo caso, sarebbero state sufficienti a raccontare quello che accadeva fra le pagine.
Poi è arrivata la fiera di Bologna, le tavole erano ultimate, facemmo una maquette e la proponemmo in visione a diversi editori stranieri. Successo, complimenti all'artista, “wonderful illustrations”: però, alla fine, nessuno si fece avanti per acquistarne i diritti. Valentina, la nostra agente all'Avana per il foreign rights department, ci informò che, non capiva bene il perché, ma qualcosa non funzionava. Finita la Fiera, sedimentata la polvere altissima e complicata delle emozioni bolognesi, un pomeriggio, a Milano, ci trovammo a fare il punto su Animali domestici.


Va bene i silent book, va bene il lettore attivo, ma questo libro era un po' troppo silenzioso, praticamente un silenzio di tomba, e i lettori più che attivi sembravano molto perplessi... Tutto appariva troppo sibilino.
Concordammo che c'era bisogno di qualcosa che lo togliesse dalla capsula di eccessivo mistero in cui era precipitato. Forse ci voleva un testo, forse un altro titolo... Ed era chiaro che il libro non poteva funzionare come C'è posto per tutti, sorretto da una storia notissima da tempo immemorabile: quella dell'arca e del diluvio universale.


Riflettendoci su da sola, poi, un giorno mi fu evidente che sì, a quel libro mancavano proprio le parole. Tutti i wordless books, durante la lettura, chiamano parole nelle mente di chi osserva le figure. Ma questo non si limitava a evocarle, le gridava, le pretendeva! Mi misi a pensare a quali potessero essere. O meglio, a quali fossero. Perché, come spiega Lionni, se la creatività è un gioco combinatorio, l'opzione giusta poi è una, e una sola, fra mille. Esattamente come una sola combinazione apre la cassaforte. O, almeno, così è per l'autore, per il quale la cassaforte è l'attenzione del lettore.


Più che un pensiero compiuto su quelle parole, il mio fu uno stato di all'erta. Non mi è mai capitato prima, ma per questo libro mi sono messa a scrivere senza guardare né le immagini né la loro esatta sequenza. E quando sono arrivata alla fine, le frasi e le pagine corrispondevano come se le avessi avute davanti. Mi è sembrato un buon segno. Le frasi erano già formulate mentre le scrivevo, senza doverci pensare. E, dato il testo, fu evidente che il titolo sarebbe cambiato: non più Animali domestici, ma La più buona colazione del mondo.


Riflettendoci, poi, ho capito che dal momento in cui avevo visto l'immagine della lucertola nella tazza, quel testo, rimasto tanto a lungo fantasma, aveva iniziato a incubare, e aveva avuto bisogno di un bel po' di tempo per arrivare alla sua forma. A volte è così: se un'immagine si impone con tanta forza alla nostra attenzione, dietro c'è sempre un motivo. Solo non è facile arrivare a capire quale.
Le tavole di La più buona colazione del mondo saranno esposte sabato, 19 ottobre, a Bologna da Zoo, nell'ambito di Pets, una mostra dedicata a Massimo Caccia, nella quale beneficeranno di una sezione tutta per loro: e io credo che non potessero trovare accoglienza e lancio migliore. Se non sapete cosa e dove sia Zoo, guardate questa animazione e leggete qui.

Infographic ZOO CONCEPT STORE (2013 - 1'57'') from seiperdue.org on Vimeo.

Siamo grati alle ragazze di Zoo di aver deciso di festeggiare la riapertura del loro spazio, dopo l'impegnativa ristrutturazione estiva, scegliendo anche un nostro autore e un nostro libro. Penso sia una cosa molto bella avere la possibilità di questa mostra in occasione della loro nuova stagione e dell'uscita del libro: lo dico come autrice e come editore.

Queste le iniziative e i laboratori legati alla mostra:

sabato 19 ottobre, dalle 18:
PETS. Una paersonale di Massimo Caccia
Inaugurazione e dediche con l'autore.

domenica 20 ottobre:
dalle 11 - ZOO!brunch.
alle 16.30 - ANIMALI DOMESTICI
Laboratorio Metodo Munari® e merenda con Massimo Caccia, per bambini dai 4 ai 7 anni.
Per info, qui.

Perciò, se siete dalle parti di Bologna, ricordatevi di Massimo, di Zoo, dei Topi. Ma soprattutto di fare una degna colazione. Anzi, la più buona colazione del mondo.


giovedì 9 ottobre 2014

Fin da quando ero piccola

Cara Alessia,
ho letto le tue riflessioni sul blog di Radice-Labirinto, nel post Libro elegante, libro distante?.
Sono d'accordo con te: i librai hanno vita movimentata, come tutti coloro che si occupano di libri. E sono anche d'accordo che l’idea di bambino che ognuno possiede è la bussola con cui si traccia la linea di confine fra libri per bambini e non.
Il tuo post tocca moltissime questioni, su tutte varrebbe la pena di riflettere, ma, essendo stata chiamata in causa, a proposito del libro L'uomo dei palloncini, penso sia necessario fare, su questo, alcune precisazioni. La tua analisi di L'uomo dei palloncini arriva dopo una serie di considerazioni che, a partire da quella centrale di 'nostalgia dell'infanzia' da parte dell'adulto, proseguono con distinzioni fra poesia e prosa, e con l'identificazione del 'lirismo come insidia' che porta alla 'perdita di vista della trama e della realtà'. Al di là delle idee personali su concetti generali, su cui si può essere più o meno d'accordo, in base alle proprie convinzioni, formazione e cultura, voglio specificare alcuni punti fondamentali che riguardano il mio lavoro, che conosco bene e di cui posso parlare con sicurezza, grazie a un'esperienza ventennale di autrice e di lavoro editoriale, escludendo quello che non mi appartiene e in cui in alcun modo mi riconosco.
Il sentimento di nostalgia nei confronti dell'infanzia mi è estraneo (anche quello verso l'adolescenza). Provo grande interesse verso queste età, che mi sembrano fondamentali nella vita degli individui. Bambini e ragazzi hanno, per me, pensieri, comportamenti e idee degni di estrema attenzione per la forza, la ricchezza, l'intensità, l'intelligenza, lo spessore dei significati e dei valori che mettono in luce. Significati in grado di mostrare aspetti rilevanti dell'esperienza umana, anche adulta.
Non è una mia scoperta, ovviamente: tutti coloro che hanno studiato, educato e sono stati in compagnia dei bambini lo sanno e ne hanno fatto esperienza. 

Per quanto riguarda la mia autobiografia, non ho nostalgia della mia infanzia, il che non significa naturalmente che non abbia bei ricordi a essa legati e che non mi capiti di provare nostalgia, come tutti, verso momenti passati legati soprattutto a persone che non ci sono più. 
Da piccola mi è sempre interessato giocare, ma anche crescere, mi sono sempre interessati gli adulti, oltre che i miei coetanei. Forse anche perché ho la fortuna di avere una memoria del passato molto viva, questo da sempre. Capita che cose accadute quarant'anni fa mi sembrino vicine come il ricordo di una cosa accaduta ieri, il che rende il passato non insanabilmente lontano, ma prossimo e presente. Questo mi aiuta nello scrivere per bambini, non per volgermi al passato con rimpianto, idealizzandolo, ma perché mi dà la possibilità di recuperare esperienze infantili.
Pur avendo avuto un'infanzia e una adolescenza agiate e tutto sommato serene, in una famiglia sufficientemente equilibrata e di buon senso, mi ricordo con estrema chiarezza che queste età hanno comportato notevoli dosi di fatica, impegno, dolore, paura, coraggio, rabbia, disagio, e richiesto, per questo, molta energia. Non è facile essere bambini e ragazzi per la semplice e buona ragione che in quei periodi della vita non sai nulla e devi capire tutto, in un contesto adulto che afferma di sapere tutto e di non dovere capire nulla. Questo, anche se sei un bambino che vive in società e famiglie accoglienti, benestanti e democratiche, non cambia di una virgola.
Tale concetto è particolarmente arduo da accettare da parte del mondo adulto che chiede alle generazioni giovani di restituirgli, in cambio di cure, educazione e accudimento, una buona immagine di sé, e tende a chiudere gli occhi su tutte le manifestazioni dell'infanzia e dell'adolescenza che destabilizzano la perfezione del quadro d'insieme, e che possono generare sentimenti ed emozioni non proprio accettabili, come dubbi, rabbia, fastidio, irritazione, indifferenza, stanchezza, senso di inadeguatezza o di colpa. Insomma il confronto generazionale non è facile per nessuno, da sempre.

La maturità ritengo sia una conquista: finalmente si è liberi di scegliere e di essere. L'infanzia e l'adolescenza sono, costituzionalmente, età di grandi scoperte, cambiamenti, trasformazioni e inquietudini, ma non sono le età della libertà e delle scelte. Per questo i bambini vogliono, giustamente, crescere, e per questo gli si fa un torto se si impedisce loro di farlo.
L'uomo dei palloncini nasce non dalla nostalgia per la mia infanzia o un momento particolare di essa, ma dall'avere osservato, una sera di qualche anno fa, dalla finestra di una casa in una cittadina appenninica, un giovane uomo che faceva quel mestiere. Non mi ero mai soffermata su questo tipo di personaggio e quello che vidi quella sera mi accorsi che non era un semplice venditore, ma una figura interessante che sapeva entrare in relazione coi bambini e parlare loro, capirli. Questo mi interessò molto: non me l'aspettavo, e rimasi a osservare quell'interazione per qualche ora, come fossi al cinema.
In seguito, pensando alle ragioni per cui quella figura mi potesse avere tanto attratto, e dopo aver scritto L'uomo dei palloncini, testo la cui stesura avvenne nel lasso di tempo di due anni circa, ne misi a fuoco con chiarezza tre. Tutte sono legate a mie esperienze infantili. Siccome per i bambini le questioni fondamentali si esprimono sotto forma di domanda, in questo modo formulerò le tre ragioni.

1)    Come ha fatto il mondo a esserci se io non esistevo? Come era prima? Ovvero c'è sempre un momento in cui i bambini scoprono questa realtà: e cioè che il mondo, e i loro genitori, non sono nati con loro. È una scoperta incredibile, proprio filosofica, anche perché in quel momento i bambini si rendono conto che il mondo potrà continuare a esistere anche quando loro non ci saranno più. Insieme a questo scoprono i concetti, impersonali, di tempo e di spazio.

2)    Come fa una persona che non mi conosce a conoscermi così bene? Come fa a sapere chi sono, di cosa ho bisogno? Ovvero, ci sono adulti che pur non sapendo nulla di noi ci conoscono benissimo e sono in grado di offrirci cose che nemmeno i nostri affetti più cari sanno darci. Questa è un'altra scoperta incredibile perché apre all'infinito l'orizzonte, limitato, della famiglia e della casa. Con questa scoperta si inizia a essere nel mondo.

2)    Come mai la notte il mondo non scompare, le cose non si annullano nel buio? Avevo osservato, le volte in cui avevo accesso al mondo dopo le 9 di sera, che esistevano persone che la notte rimanevano sveglie, per lavoro, per esempio, ma anche perché insonni. Pensai così che il merito della salvezza del mondo fosse loro che non dormivano mai, e vegliavano sul sonno degli altri, permettendolo. Fu un grande sollievo. Immaginavo figure adulte di appoggio e responsabilità, figure di bene e saggezza che magari non conoscevo, ma su cui sapevo di poter contare. I miei mi proteggevano, ma c'era qualcuno che a sua volta proteggeva loro.

Questa storia, perciò, non ha nulla a che vedere con la nostalgia, ma con esperienze infantili molto forti. L'ho scritta pensando a quanto mistero quella semplice figura portasse con sé. Quanto un incontro del genere, così apparentemente prosaico, l'acquisto di un oggetto, possa determinare un'esperienza significativa per un bambino, per il quale, per esempio, le cose rivestono sempre significati immateriali e simbolici importanti. Vi siete mai chiesti, seriamente, perché i bambini, tutti i bambini del mondo, siano irresistibilmente attratti da venti grammi di plastica attaccata a un filo? O perché un bambino possa metterci molto tempo a scegliere un oggetto assolutamente insignificante? Addirittura a volte un prodotto seriale, uguale a cento altri identici, ma nel quale sembra vedere fondamentali differenze?

Sono consapevole di essere stata una bambina pensosa e portata per la contemplazione e la riflessione sul mondo intorno a me. Ma questa è una caratteristica che tutti i bambini hanno, non mia esclusiva. Che i bambini abbiano questa inclinazione naturale lo ha affermato e ripetuto per tutta la vita, fra gli altri, Maria Montessori. È quel tipo di caratteristica per cui di solito, appena una bambino esprime un pensiero di solito definito 'profondo', gli adulti cadono dal mondo delle nuvole, trovando assolutamente incredibile che a quell'età si pensi in quel modo, come se a parlare fosse stato, fra lo sgomento generale, una scimmia o un canarino. Non solo i bambini pensano, ma come dichiara il titolo di un imperdibile libro del maestro umbro Franco Lorenzoni, edito da Sellerio, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica.

Da piccola, alle elementari leggevo fumetti: da Topolino a Diabolik (che trovavo un po' pretenzioso), da Valentina Mela Verde ai Peanuts. Essendo una bambina osservatrice mi era chiaro che con numerosi miei coetanei potevo condividere le mie impressioni sui primi due fumetti, molto popolari (oggi direi il 90% dei bambini); per trovare amiche con cui condividere il mio amore per Valentina, la percentuale scendeva diciamo al 30%. Dei Peanuts, - ragazzini americani dal segno elegante, filosofici, caustici, pensosi, esilaranti, le cui storie non cominciavano e non finivano perché erano storie fatte di situazioni e non di trama - potevo parlare con pochissimi, praticamente nessuno. Io conoscevo i Peanuts perché mia madre era abbonata a Linus, rivista di nicchia che i più non conoscevano. I miei non mi forzavano a leggerlo per farmi diventare una scimmia intelligente da esibire nei salotti radical. Semplicemente i miei erano curiosi, leggevano molto e di tutto, e la rivista girava per casa e io la guardavo e leggevo i fumetti che mi piacevano; gli altri, quelli che non mi parlavano, li lasciavo perdere, pensando che prima o poi magari avrei avuto accesso ai loro misteri.
Non mi sentivo strana per avere, fra gli altri, anche gusti diversi: non mi importava non trovare qualcuno con cui parlare dei Peanuts. Se rimanevano una passione solitaria, coi miei amici potevo parlare di un milione di altre cose.

Senza paragonarmi a Schultz, trovo importante che i bambini possano avere esperienze del genere. Che vi siano libri che parlino loro con una voce che può anche spiazzarli e parlare una lingua che ha regole diverse. Se scrivo Il grande libro dei pisolini o Al supermercato degli animali sono, ovviamente, consapevole che avrò un pubblico più numeroso: temi, parole e rime so benissimo che rendono il libro più accessibile e godibile per tutti, facendo riferimento a un mio gusto e a mie esperienze di bambina molto amate, allegre e condivise. Ma come scrittrice penso sia interessante rivolgermi anche a quei lettori che hanno esperienze meno condivisibili e meno facili da capire, spiegare, affrontare, accogliere, esattamente come le avevo io. Per questo non mi precludo libri come L'uomo dei palloncini, come La più buona colazione del mondo, C'era una volta una storia o Casa di fiaba per dire qualche titolo davanti al quale ho visto inarcarsi più d'un sopracciglio.

Infine, due considerazioni: se qualcuno mi dice che a suo figlio è piaciuto un mio libro sono ovviamente molto contenta, ma con ciò non deduco in nessun modo che il libro piaccia 'a tutti i bambini'. E rimarrei piuttosto perplessa davanti a una riflessione che parta dal presupposto di 'osservare il libro con gli occhi di un adulto'. Quale adulto? Forse me stessa? Difficile stabilire che in base alla reazione di un non ben definito adulto una storia sia mancata o riuscita, stabilendo il perché. Sappiamo bene che i pareri di noi tutti sui libri sono contrastanti. Ma sappiamo altrettanto bene che esiste un modo più impersonale di valutare un libro, e che ci sono libri orrendi e libri buoni, al di là del fatto che ci siano piaciuti o meno, dato che la nostra opinione è relativa e soggettiva. Per giudicare una cosa bisogna conoscerla. E quello della conoscenza è un processo di avvicinamento che richiede tempo, distacco e impegno.
Sforzarsi di vedere con gli occhi di un bambino è meritevole, ma sempre tenendo presente che noi non lo siamo bambini, e quel bambino lo immaginiamo soltanto. Sotto numerosi giudizi dati a libri per bambini cova sempre l'idea che i libri, per essere definibili adatti ai bambini, debbano piacere alla misteriosa categoria dei bambini, test inequivocabile, che ne sancisce la leggibilità tout court. Come se non ci fossero gusti, inclinazioni, interessi che fanno di ogni bambino un lettore diverso, come avviene per noi adulti che a ogni passo invochiamo, fino destituirla di ogni senso, la famigerata bibliodiversità. Come se non esistesse una possibilità di discorso critico, al di là dell'età, come se provare a uscire dal cerchio mi piace/non mi piace dei bambini, fosse un sopruso inammissibile e antidemocratico. Come se non ci fosse un'idea di educazione. Quanti problemi da sbrogliare, quanta confusione su questi temi.

Ricordo un padre, a Più libri più liberi, fiera romana dal pubblico selezionato, che dopo essersi rigirato per le mani un libro per dieci minuti, decise di non comprarlo con questa spiegazione: «Troppo problematico, preferisco non mettergli in testa idee che non ha.» O una madre, pediatra, in cerca di un libro per il compleanno della sua bambina, che dopo aver ispezionato ogni millimetro di Filastrocca ventosa non lo acquistò: «Non voglio gettare un'ombra sul momento felice dello spegnere le candeline.» Quanto questi due genitori stavano pensando al loro figlio come lettore e hanno effettivamente valutato il libro al di là della riflessione 'fa bene o fa male'? Quanto quelle ombre e quelle idee sbagliate riguardavano loro e non i loro bambini? Se empiricamente stabiliamo che a molti bambini piace di più il coniglio dei cereali Nesquik rispetto alle illustrazioni di Mattotti per Hansel e Gretel, cosa significherà? Che i bambini sono più esposti a immagini pubblicitarie o che Mattotti non è un illustratore adatto all'infanzia? Che la Nesquik ha sfruttato la popolarità planetaria di un celebre coniglio dei cartoni animati o che la fiaba dei Grimm è inadatta a essere illustrata per i bambini di oggi perché propone loro un immaginario negativo e spaventevole? Che il coniglio è rassicurante e propone un'idea di infanzia positiva, allegra e condivisibile o che Mattotti è inquietante e distante perché ha elaborato un linguaggio visivo che non ha tenuto in considerazione la visione delle cose dei bambini, ma solo la propria? Qual è la visione delle cose dei bambini? Quella che stabiliamo noi? Quella che stabilisce la Nesquik? O quella che stabiliamo noi insieme alla Nesquik? Quella di Mattotti? Quella dei Grimm?

Possibile che quando si parla di libri per bambini il giudizio sia quasi invariabilmente vincolato a ragioni psicologiche e terapeutiche di fruibilità e così raramente a un discorso sulla cultura, l'educazione all'immagine, al segno, alla parola? Non è anche questo modo di vedere le cose che alla fine consegna l'idea di lettura in età infantile a pratica di puro intrattenimento con tutte le conseguenze del caso? Eppure, come spiega impeccabilmente Lorenzoni nel suo bellissimo libro, in un capitolo magistrale sull'educazione all'arte, "i bambini sanno nutrirsi in modo straordinario del bello."

Si parla sempre, e aggiungerei quasi da non poterne più (e da non capire più di cosa si stia parlando), di diversità. Forse così come dobbiamo rispettare e capire le differenze fra le persone, grandi e piccole, dobbiamo capire quelle fra i libri.
Al di là di L'uomo dei palloncini che leggitimamente può piacere o non piacere così come tutti i libri del mondo, forse questi libri 'eleganti' che ricorrono a parole e immagini che utilizzano registri 'altri' perché raccontano di esperienze 'altre', parlano a bambini che nella vita di tutti i giorni fanno esperienze poco condivise, ma importanti sia per se stessi sia per gli altri.
Fin da quando ero piccola ho imparato che riguardo a certi temi e modi di esprimersi, le percentuali si abbassano. Non è un problema per me, mi colpisce sempre che lo sia per altri.

martedì 15 settembre 2015

I bambini leggono/6. Il meraviglioso Cicciopalla

Oggi vi proponiamo due recensori d'eccezione: Giovanni Eugenio e Margherita. Quest'estate il loro papà gli ha comprato Il meraviglioso Cicciapelliccia, e la loro mamma è stata costretta, visto l'entusiasmo con cui è stato accolto, a leggerlo qualche centinaio di volte. Così, quando ci è venuta l'idea di ascoltare le loro opinioni su questo libro, hanno cortesemente accolto la nostra proposta, e qualche giorno fa ci hanno mandato le loro recensioni. La prima è stata dettata alla mamma, visto chel'autore è un treenne ancora non avvezzo all'uso della penna, ma questo non è mai stato un problema per un ragazzo dotato di immaginazione. Probabilmente si tratta del più giovane recensore del pianeta: ha davanti un futuro, ne siamo certi. La seconda è di sua sorella Margherita, che ha per noi redatto questa magnifica prosa in bella copia. Ne siamo onorati, anche perché ci è piaciuto molto il suo stile e il fatto che sia molto brava a giocare e a ballare. Grazie Giovanni Eugenio, Margherita e Barbara, mamma-scrivana. Buona lettura a tutti.


Sono io?

[di Giovanni Eugenio detto anche Gioggi il Principe Guastatore o Cicciopalla. Tre anni splendidamente portati, un futuro da pompiere ed un presente da terremoto.]

Spesso in casa, per via della forma che ho, mi chiamano Cicciopalla. Quindi, quando a fine luglio ho saputo che il babbo ci avrebbe portato un libro intitolato Il meraviglioso Cicciapelliccia, ho subito domandato: «Sono io?».
In questi mesi ho chiesto alla mamma di leggermelo molte volte e mi capita anche di sfogliarlo da solo. Il libro è bello, ma ho subito capito che non si tratta di me.
Mi piacciono molto i negozi che ci sono nei disegni. Mi ci perdo.
Le pettinature delle tre signore che si vedono nella vetrina della parrucchiera sono divertenti e vorrei entrare nel negozio di giocattoli, ma quello che mi attrae più di tutti è il negozio del panettiere Jean, con le brioche, le fette di torta, i bignè, il pane da toast e anche lo strudel che a me piace parecchio. Vado matto anche per la vetrina di Emmett perché ci sono l’armatura, il trombone e, se ci guardi bene, vedi anche un uccellino in gabbia.


Un giorno, prima del pisolino pomeridiano, stavo sfogliando Cicciapelliccia per conto mio e mi sono accorto di una cosa stranissima: sempre all’interno del negozio di Emmett, nella pagina in basso, si vede una coda rosa. Io dico che è del Cicciapelliccia! Mia sorella dice di no, ma lei è una femmina….
Mi piace tanto anche guardare gli oggetti che ci sono in casa della bimba Edith ed elencarne i nomi. A Modena anche la mamma usa una frusta come quella che ha Edith per montare le uova e qui al mare abbiamo le stesse tovagliette intrecciate per la colazione. Ce ne sono nelle case di tutti i bimbi? Mah… leggendo il libro mi sono venute in mente anche tante altre domande, tipo: il Cicciapelliccia è maschio o femmina? Cosa mangia?  È una specie di topo? È dello stesso colore della giacca della bambina perché alla fine diventa suo? Se vuole può parlare? Vive sui tetti come un uccellino? Sa ridere? È pauroso?


A me, ad esempio, fanno un po’ paura le facce del macellaio Theo e dello spazzino Quentin. Al contrario mi fa molto ridere la pagina in cui Edith tira fuori il Cicciapelliccia dalla spazzatura e dice «Che schifo!» e mi diverto anche alla fine, quando la mamma di Edith se lo sistema in testa come se fosse un cappello.
Io ho un gatto, Petit Pierre, che è più grosso del Cicciapelliccia, e quindi non posso metterlo in testa, e nemmeno fargli fare tutte le altre cose a cui può servire un Cicciapelliccia, perché Petit non vuole. Però a volte lo abbraccio come la bimba abbraccia il Cicciapelliccia.
Alla fine Edith è felice perché regala il Cicciapelliccia alla sua mamma e anche la mamma è contenta perché il Cicciapelliccia è peloso e prezioso.


Quando leggiamo il libro mi diverto a fare soprattutto due cose: il verso del Cicciapelliccia che, secondo me, è quasi un miagolio di gatto e poi, quando la storia è finita, mi piace tanto confrontare le due pagine iniziali con le ultime due alla fine. Dico tutti i nomi dei personaggi ed elenco i loro mestieri (tra l’altro, la fioraia Wendy somiglia molto alla zia, la stessa che, secondo me, è ritratta da piccola in una delle fotografie illustrate in Chiuso per ferie), li osservo attentamente a caccia di differenze. Per ora mi sono accorto che in fondo compare il Cicciapelliccia in testa alla bambina, mentre prima non c’era. È perché lo ha trovato.
Mia sorella dice anche che l’uccellino in basso annuncia la fine del libro, ma io, ogni volta, controllo che non ci sia altro. Secondo me, appena la mamma chiude il libro, i personaggi cambiano posizione e allora lo apriamo e lo chiudiamo velocemente varie volte. Per ora sono sempre lì.


B. Alemagna, schizzo per Il meraviglioso Cicciapelliccia.
Sono molto brava a giocare 

[di Margherita detta anche Megghi Ciucci. Nove anni. Ballerina-canterina-musicista. Il giusto contrappasso per due genitori che fanno della scienza il loro pane quotidiano.]

Appena ho letto il meraviglioso Cicciapelliccia mi è piaciuto che la bimba di nome Edith, Eddie per gli amici, si preoccupa di cercare un regalo per la sua mamma. L’ho fatto tante volte anch’io.
Guardando il negozio di Jean il panettiere mi è venuta fame e voglia di mangiare tutto; e a me piacciono i fiori di Wendy; e Mimì che negozio da favola!
Le uniche due cose che non ho capito del libro sono state: la prima è che Edith andrà nel negozio del signore più elegante del Mondo, cioè Emmett l’antiquario, quando non è molto elegante; la seconda è che Theo puntò un coltello verso il naso di Edith, e non è un bel gesto.

Beatrice Alemagna, schizzo per Il meraviglioso Cicciapelliccia.

Quando leggo il libro con mio fratello e la mamma ci divertiamo a inventare il verso del Cicciapelliccia e a pensare altri modi di usarlo. Per esempio:
spugna per i piatti o per la doccia
mocio per i pavimenti
borsa dell’acqua calda
palla (NON da calcio)
ferma porte
piumino per la cipria
scalda mani
elastico per i capelli
pallina per l’albero di Natale
yo-yo
cancellino per la lavagna.

Beatrice Alemagna, schizzo per Il meraviglioso Cicciapelliccia.

Ma la cosa più bella di tutto il libro è che grazie ai regali dei suoi amici Edith scopre il suo talento.
Alcuni dei miei talenti io li conosco già: sono molto brava a giocare e a ballare. Sono brava anche a disegnare e mi diverto molto a guardare la pagina con tutti gli usi del Cicciapelliccia e l’illustrazione del negozio di Mimì da dentro perché è molto peloso.
Per finire vorrei dire che del Cicciapelliccia mi piace il pelo e il colore, ma anche il suo sguardo strano che mi fa ridere.

 

















 
















Per leggere le altre puntate di I bambini leggono, qui.

lunedì 2 maggio 2011

Signor Ionesco, benvenuto nella terra dei picture book

Josette ha trentatre mesi, meno di tre anni, ma è già grande. Una mattina si affaccia alla camera dei suoi genitori che stanno smaltendo la sbornia della sera precedente, insieme alla governante, con un grande vassoio pieno di cose da mangiare per la colazione. Viene, ovviamente cacciata via. Con dolcezza, ma cacciata.
Torna in cucina, mangia tutta la colazione dei genitori in compagnia della governante, tale Jaqueline, poi torna all’assalto. Si butta sul letto, fra i due malcapitati reduci dalla gozzoviglia e insiste: vuole che suo padre le racconti una storia. In tutto questo, la mamma continua a russare come un orso in letargo.
Comincia così Story Number 1 for children under three years of age, scritto da Eugéne Ionesco, illustrato da Etienne Delessert e pubblicato da Harlin Quist, a New York,  nel 1968.


Non c’è da stupirsi che uno dei mostri sacri del “teatro dell'assurdo” – uno convinto che la ricerca di un senso e un ordine nella vita fosse futile –, con la complicità di un editore rivoluzionario e sfuggente – e che proprio dal teatro proveniva –,  in un anno che segna nell’immaginario collettivo una svolta storica, abbia proposto a bambini “di meno di tre anni” un libro che: comincia con una sbronza e le sue conseguenze; continua con una storia dove tutto – il padre, la madre, gli zii, i cugini e perfino il cavallo a dondolo e il vasino – si chiama Jaqueline, inventata sul momento da un padre ancora stordito dall’eccesso per far star buona una figlia credulona; e finisce in un negozio (la cui insegna recita E. Ionesco I) con una bambina che si chiama davvero Jaqueline, spaventata all'idea che il suo nome comporti necessariamente un universo dove tutto si chiama Jaqueline, con le conseguenti confusioni pratiche e identitarie.


Sul testo di questo libro, e dei suoi tre fratelli, pubblicati sempre da Harlin Quist fra il 1968 e il 1973, si dicono molte cose, ma non so quale sia quella esatta. Quel che è certo è che sono comparsi nelle tetre memorie personali di Ionesco Present Past Past Present nel 1968 (Passato e presente, Rizzoli, 1970) e sono allegramente precipitati nel mondo dei picture book. Si dice che Ionesco li abbia scritti per sua figlia, ma la cosa è resa improbabile dalla data di nascita della figlia (1944), così lontana dalla data di pubblicazione. Qualcuno ipotizza una nipote, ma la cosa resta nel vago.

Visto da oggi, con tutto il conservatorismo, a volte anche becero, che tende a prevalere nel mondo della cultura per ragazzi, stupisce e rallegra che nel risvolto della sovraccoperta si dica (traduciamo): «Da quando Ionesco ha scritto opere come Le sedie, La cantatrice calva, Il rinoceronte e La morte del Re, il teatro non è stato più lo stesso. Ionesco piega e trasforma la realtà, tuffandosi nell'assurdo, nel grottesco, nel tragico, nell'irreale: e la realtà acquisisce così altre dimensioni. Questo è il primo libro per bambini di Ionesco. Da oggi, fortunatamente, anche i più piccoli possono confrontarsi con il suo caratteristico sguardo.»

«Le assurdità impassibili di Ionesco e le surreali illustrazioni di Delessert riflettono il mondo interiore del bambino con immensa originalità. I loro Story Number 1 e Story Number 2 devono essere considerati fra i picture book più fantasiosi dell'ultimo decennio.» Questo diceva Maurice Sendak nel 1971, nel catalogo di Harlin Quist.
Ma esiste un altro interessante legame fra questo libro e Maurice Sendak: la presenza di uno dei suoi mostri selvaggi, trasformato in palloncino, tenuto da un’elegante signora, in una delle illustrazioni del libro.


Le illustrazioni di Delessert sono peraltro dense di dettagli simbolici e di rimandi “alti”: un rinoceronte che fa riferimento diretto a una delle opere più celebri di Ionesco; un anello con l’effigie di Cartesio al dito della governante che zittisce tutti alla fine della storia; un manipolo di guerrieri greci che escono da un cavallo a dondolo.


Per quanto Delessert non sia il nostro illustratore preferito, fa parte del pantheon dei Grandi e gli va riconosciuta la capacità stratificare nelle sue illustrazioni un universo di riferimenti simbolici e culturali che permettono livelli di lettura molti diversi da parte del bambino, solo o accompagnato da un adulto.


Di Ionesco e Delessert probabilmente continueremo a parlare. Di Harlin Quist riparleremo sicuramente. Non va dimenticato che Story number 1 è stato coraggiosamente pubblicato in Italia da Rosellina Archinto (Emme edizioni), alla quale noi editori di libri per ragazzi dobbiamo ancora oggi molto più di quanto potremo mai immaginare e riconoscerle.

lunedì 10 giugno 2013

Fumetto, fiaba e rock'n roll

Salomè, Aubrey Beardsley
[di Martina Esposito]

Era il 1967 quando la BBC commissionò all'autore Terry Jones un programma per bambini.
Il registro dei testi necessitava di una forte figuratività così, su consiglio dell'amico John Cleese,
venne coinvolto Terry Gilliam, animatore americano tra i più freak che il momento potesse offrire.
Il risultato fu uno spettacolo di successo che però si rivolse presto a un pubblico adulto.
In compenso, le brillanti menti dei tre si unirono a quelle altrettanto acute di Eric Idle, Michael
Palin e Graham Chapman, quindi ai futuri Monty Python, uno dei gruppi comici più dissacranti mai esistiti.
Questo per dire che l'immaginario infantile ha sempre fatto significativamente crescere gli uomini.

Michael English, Nigel Wymouth, poster per Ufo Club.
La Gran Bretagna ne è un ottimo esempio: basti pensare a spiriti, gnomi e fate. Non quelli immortalati da Edmund Dulac e da Arthur Rackham, quanto da Michael English e Nigel Wymouth.
Chiunque fosse stato appassionato di musica negli anni Sessanta non si sarà fatto certo sfuggire le strepitose locandine realizzate dai due sotto il nome Hapshash and the Coloured Coat per Pink Floyd, Jimi Hendrix e molti altri ancora.
Che la psichedelia anglosassone si nutra di mostri sacri dell'illustrazione non è certo un mistero
poiché, in fin dei conti, le muse a promozione dei locali londinesi non differiscono tanto dalla Salomè di Aubrey Beardsley. Basti guardare il poster realizzato dal duo per l'Ufo Club di Londra a metà anni Sessanta: una donna alata che traina in cielo un castello incantato, attraversando un tramonto di stelle cadenti.
La Sirenetta, Edmund Dulac

Simile, in parte, alla dolcissima Sirenetta interpretata da Dulac per Storie da Hans Christian Andersen, che fluttua nel medesimo spazio rarefatto.
C'è da chiedersi cosa abbia spinto i favolosi Sixties al recupero di tali influenze.
Cosa accadrebbe a un ragazzino se cadesse in un burrone? E se entrasse all'Ufo Club? La medesima cosa, probabilmente.
Sir John Tenniel ha saputo disegnare meglio di chiunque altro la storia di Alice e la sua disperata ricerca di sè. Bene: non c'è autore migliore di Lewis Carroll per spiegare la foga degli anni Sessanta. Una vera e propria iniziazione alla musica, all'arte e alla conoscenza.
Un tuffo a occhi chiusi nella tana del Bianconiglio.

Tales from the Tube, Rick Griffin
Al contempo, negli Stati Uniti si vive di comics. Si mangia Marvel a colazione, e Jack Kirby, Stan Lee o Steve Ditko sono la punta di
un iceberg ben più grosso, pronto a sgretolarsi in una miriade di super eroi.
Rick Griffin, uno dei più autorevoli poster artists di sempre, è inizialmente un fumettista. Solo successivamente decide di fondere la passione musicale a quella artistica, sconvolgendo  il mondo della grafica da manifesto. Il suo segno in Tales from the Tube è già potente e sanguigno, un appunto preso dai grandi del fumetto; nel momento in cui pensa al poster, Griffin non si snatura.

Marvel, The Incredible Hulk.
La composizione in bianco e nero elaborata per la locandina dei Jook Savages (rock band in cui militava), è una perfetta orchestrazione di caratteri e linee; il testo assume forma fondendosi all'illustrazione e diventando, anzi, illustrazione stessa.
È chiaro che il codice del fumetto sia opposto a quello della Golden Age  dell'illustrazione: se l'America parla il nuovo linguaggio underground, l'Europa si ritrova a fare i conti con la sua
secolare storia dell'arte.
"Da grandi poteri derivano grandi responsabilità", diceva Spider Man. E da grandi artisti derivano grandi eredità: da Kay Nielsen ad Alphonse Mucha, da Walter Crane a William Blake.
Locandina per i Jook Savages, Rick Griffin.

Gli Stati Uniti creano sul momento un'arte che l'Europa è abituata a metabolizzare da tempo, con pro e contro. L'idea di avere avuto dei maestri è, sì, un peso, ma sopratutto una base solida; mentre l'avventura degli Stati Uniti rischia di essere un azzardo come un bingo.
Sta di fatto che il rock poster promette sensazioni estreme; paradossale che per evocarle si serva di semplice fumetto e illustrazione. In buona sostanza, si torna piccini per raccontare cose grandi.
Forse perché seguire il Bianconiglio è davvero il solo modo per trovare se stessi; forse perché in poche strisce di fumetto c'è la verità sufficiente per affrontare il mondo.
O forse perché, molto più semplicemente, si è sempre bambini quando si scopre qualcosa per la
prima volta.