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lunedì 15 giugno 2015

La poesia è una tenda

[di Silvia Vecchini]

A marzo dello scorso anno è uscito Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, e una delle poesie della raccolta diceva così:

Cliccare sull'immagine.

Quando mi è stato chiesto di presentare il libro a bambini e ragazzi, di pensare a un incontro con loro, ho voluto che ci fosse una tenda. Con mio padre ho preparato una struttura leggera fatta di legno colorato. Poi ho chiamato la mia amica Elena e abbiamo messo insieme un po’ di stoffa, corde e cordine, fiocchi e mollette. Abbiamo cucito alcune taschine dentro e fuori la tenda, aperto una finestrina.
Ho pensato la tenda aperta, con una prolunga sul davanti in modo da stendere la stoffa sopra le teste dei bambini di un’intera classe, l’ho usata all’aperto e al chiuso, in libreria, in bilioteca, in un teatro e nei corridoi delle scuole.

In piazza, a Carpi, ospiti della Libreria Radice Labirinto.

Lì sotto accolgo i bambini che, in fatto di rifugi, case fatte con quello che c’è, tane e ripari provvisori sono dei veri maestri. A ogni incontro si allunga la lista di istruzioni su come farne una. L’ultima volta un bambino ha detto: «Io uso sempre lo stendino per il bucato». In effetti, a pensarci bene, è perfetto.
Ho scelto la tenda per portare la poesia tra i bambini perché è il primo luogo che tiriamo su per separarci un poco, per avere un segreto piccolo, per uscire più forti e più allegri. È bene che ci sia un po’ di buio, che ci sia un po’ di luce. Cibo, certo, qualche gioco, qualcosa da leggere.

A Firenze, ospiti della Libreria Cuccumeo.

«Io ci metto sempre mio fratello piccolo», ha detto un altro bambino. Non sempre infatti vuol dire cercare solitudine ma di sicuro vuol dire scegliere cosa mettere dentro, cosa lasciare fuori, quale sarà la parola d’ordine per essere ammessi, chi la potrà conoscere.
Così dico ai bambini che la poesia è una tenda che si apre quando vogliamo. È leggera, la poesia, si può portare dappertutto. È la tenda che facciamo attorno a noi quando vogliamo pensare, ma è anche la tenda che abbiamo dentro, lì dove possiamo ascoltare la nostra voce.
I miei incontri di scrittura con i bambini vanno tutti in questa direzione: ascoltare i propri pensieri e dare fiducia alla propria voce.

A Bibliobrugherio, ospiti della Biblioteca di Brugherio.

Credo profondamente che questo sia uno dei doni più grandi che può farci la poesia. L’ho capito al liceo. Il mio professore di italiano aveva iniziato una pratica semplice: ti affidava un libro in lettura e dopo un paio di settimane sedevi dietro la cattedra e raccontavi cosa avevi letto, che cosa ne pensavi. Per me, capitata in un liceo scientifico con biennio sperimentale di fisica, era ossigeno. Così mi passò diverse letture. Tra le altre ci mise anche La poesia salva la vita di Donatella Bisutti (Mondadori) perché sapeva che scrivevo versi. Quando, ligia al dovere, raccontai anche il breve scritto di Attilio Bertolucci, dove il salvare la vita era legato a un ricordo della seconda guerra mondiale, mi guardò malissimo. Lui voleva che io dicessi perché a me la poesia salvasse la vita. Aveva ragione.

Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.

Ero scampata da un inizio di adolescenza confusa, buia e storta praticamente solo grazie alle parole. Non dissi esattamente questo, ma risposi alla sua domanda e non me lo scordai più. Vidi chiaramente le mani delle poesia che mi erano venute in soccorso. La prima era stata in realtà un ascensore che mi aveva portato più giù, più dentro senza paura, per poi risalire. E la seconda era in realtà un occhio sempre aperto, quello della metafora. La metafora (di cui non parlo in senso tecnico con i bambini, ma che ci godiamo insieme nel flusso delle letture) è stata per me la possibilità di ricominciare, a guardare dentro e fuori, a guardare me stessa come se non mi fossi mai vista prima.

Ospiti alla Casa della Fantasia, a Sarmede.

«Tutte le cose del mondo in realtà un pochino si assomigliano e non potrebbe essere diversamente, dal momento che tutte sono fatte, come ci spiega la fisica moderna, di particelle di una stessa energia. Quindi, ogni volta che fa una metafora, la poesia ci fa esclamare: «Non è vero però è vero!». E il piccolo shock che proviamo ogni volta a questa scoperta ci dà un brivido di emozione. È proprio quello che la poesia voleva! Così ci costringe a fare più attenzione a quello che ci circonda, a scoprire a che cosa può assomigliare, e così a guardarlo come fosse qualcosa di nuovo, mai visto prima…» Donatella Bisutti, La poesia è un orecchio (Feltrinelli Kids).


Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.

Questo sentire tutto legato insieme, corrispondente a qualche cosa da scorprire, questo avvicinare in un baleno cose lontanissime, questo somigliarsi, questo: «Non è vero però è vero» , questo riprendere a guardare con attenzione è un altro dono della poesia che provo a portare ai bambini.
Nella pratica della scrittura condivisa, che si svolge fuori e dentro la tenda, i bambini scrivono sollecitati da alcuni stimoli alla scrittura semplici, diretti. Non è obbligatorio, ma tutti possono leggere quello che hanno scritto. Il tempo della scrittura ha un doppio nel tempo dell’ascolto di ciascuna delle voci. A volte qualcuno fa più fatica a trovarsi, ma quasi sempre nessuno molla. 

Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.

Se con me c’è un insegnante attento, che partecipa al laboratorio e segue i bambini o i ragazzi con discrezione, non di rado finisce per dirmi che Marco ha rivelato qualcosa di se stesso, Giulia è proprio così come scrive, Matteo non aveva mai detto così chiaramente che…
Le voci dei bambini non vanno estorte né costrette a rivelarsi. Tenere qualcosa per sé va proprio bene. Si può anche non scrivere e non dire. Un incontro sulla scrittura è solo un piccolo assaggio.

Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.
Quello che conta è che i bambini abbiano un accesso alla scrittura personale, senza valutazione che non sia la propria, che abbiano il tempo di fare delle prove, cercare nella scrittura quello che più appartiene loro e li caratterizza, che si ricordino che hanno una voce che dentro scorre come una sorgente e che è bene ascoltarla con attenzione.
Non stupisca, infine, questa citazione. Che sembra lontana, che parla d’altro. Eppure per me è vicinissima tanto alla descrizione della poesia e della creatività, quanto alla voce dei bambini.

«Io riposo in me stessa. E questo “me stessa”, la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo “Dio”. [...] Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
Etty Hillesum, Diario.

Chi passa qualche ora nelle scuole, nelle classi, sa che uno dei lavori più importanti da fare per tanti bambini (per le ragioni più diverse e per le difficoltà più amare), sia quello di chinarsi e aiutarli a togliere sabbia e sassi.
La poesia è una tenda. Un primo accampamento che dice: «Bene, oggi ci fermiamo. Ci si riposa. Abbiamo sete, vediamo se c’è dell’acqua».

Carpi, Libreria Radice-Labirinto, 8 giugno 2015.

In piazza, a Carpi, ospiti della Libreria Radice Labirinto.

venerdì 20 marzo 2015

Essenza, trasformazione, incanto

La scorsa settimana vi abbiamo presentato In mezzo alla fiaba attraverso le parole della sua autrice, Silvia Vecchini (lo trovate qui). Oggi la parola passa ad Arianna Vairo che l'ha illustrato, offrendo un punto di vista diverso che offre spunti di riflessione introno alle molte voci che fanno un libro.

 [di Arianna Vairo]

In mezzo alla fiaba è stata la mia prima esperienza completa di libro illustrato, un nuovo importante punto di partenza nel mio percorso professionale.
Come un organismo vivente, ha avuto un lungo, bellissimo e doloroso periodo di gestazione; inizialmente caotico, attraverso il dialogo con Giovanna ha conquistato una struttura solida, dove le forme disegnate hanno potuto muoversi liberamente, riempendo di senso ogni piccolo gesto. Alla fine del dialogo, il progetto ha ottenuto con Paolo la sua forma fisica.
Nel settembre 2013 ricevo da Paolo e Giovanna la proposta di illustrare 20 poesie di Silvia Vecchini. Ogni poesia interpreta una fiaba, spogliandola, intrecciando liberamente elementi dell'iconografia classica ed esperienza vissuta o immaginata. Emerge da queste una voce viva, nella natura della poesia e della fiaba. Di queste fiabe-poesie vengo invitata a rappresentare visivamente il punto più oscuro e intimo, centrando gli elementi conflittuali ed esistenziali, portando all'estremo il processo iniziato dalle parole di Silvia.





















Illustrazioni per The Abramović Method.
Illustrazioni per The Abramović Method.




















Mi viene inoltre indicata una direzione stilistica: dal mio portfolio Giovanna sceglie un'illustrazione realizzata per The Abramović Method, terzo volume del catalogo dell'omonima mostra di Marina Abramović al PAC, dove due figure sono rappresentate in maniera tanto essenziale da risultare senza genere, universali segni messaggeri, immagini-linguaggio. La palette di colori che mi viene indicata è primitiva quanto il segno, luce-buio-vita, bianco-nero-rosso.
La mia prima risposta è fuorviante, sporca e azzurra ceramolle di un giovane personaggio femminile, con l'intenzione di attraversare tutte le fiabe/poesie indossandone di volta in volta i panni e i diversi punti di vista, percorrendo le pagine in lungo e in largo come una nuotatrice.

I cigni selvatici: dalla prima prova alla definitiva.

L'intuizione del movimento nello spazio del libro è l'unica eredità che viene approvata, inverto il metodo di ragionamento e riparto dalla parola.
Mi concentro su due soggetti, I cigni selvatici e Raperonzolo, vicini alla mia vita in quel momento. Per due mesi ripeto le stesse metafore visive in decine di disegni, continuamente invitata da Giovanna ad asciugarle e definirle.
Ancora una volta capisco di dover cambiare metodo, accantono i primi due soggetti, ormai raggiunti anche se in forma grezza, e mi avventuro nei successivi, rileggendo le fiabe originarie in un primo momento, le poesie in un secondo e, infine, ricordando la mia esperienza di lettura attraverso il disegno.
Scelgo quindi una tecnica che mi permetta di dipingere lo spazio anziché le forme, come accade nella xilografia dove si scava nel legno ciò che rimarrà bianco in stampa, lasciando alle azioni e ai contorni delle figure un margine di vibrazione incontrollato all'interno di una struttura definita.

Raperonzolo: dalla prima prova alla definitiva.

Da qui in poi, il dialogo tra Giovanna e le mie immagini si fa sempre più fitto, alcune illustrazioni nascono immediatamente, altre passano attraverso molteplici prove e tentativi.
L'editrice mi invita ogni volta a semplificare, ad ammorbidire spigoli ed eccessi, a cogliere di soppiatto i soggetti nel momento fondamentale della crescita, concentrandomi su un loro unico gesto essenziale che contenga forza, coraggio e consapevolezza, ma anche grazia ed eleganza, come il principe che si divincola tra i rovi del bosco addormentato di Arthur Rackham.
Mi ripete tre parole chiave della fiaba, come un mantra: essenza, trasformazione, incanto.
Mi spinge a semplificare le immagini, a rappresentare i soggetti nel momento in cui stanno superando prove importanti, a comprendere che la vita è una successione di forti, coraggiose uniche scelte, da portare indosso con grazia ed eleganza.
Anna Martinucci ha avuto la pazienza di accompagnare l'ultimo tratto di questo percorso, impaginando testi e illustrazioni e disegnando il titolo in copertina.
Grazie a Paolo, e agli stampatori, i tre concetti alla base di questo progetto sono stati replicati nella realizzazione concreta del libro, chiudendo il cerchio.

 
La bella addormentata nel bosco: dalla prima prova alla definitiva.

lunedì 9 marzo 2015

In mezzo alla fiaba

Oggi presentiamo In mezzo alla fiaba, una delle nostre novità già in libreria, e che troverete alla Fiera di Bologna. Lo facciamo attraverso le parole di Silvia Vecchini, sua autrice che spiega il suo rapporto con la fiaba e il modo in cui è giunta a queste poesie. Nei prossimi giorni passeremo la parola ad Arianna Vairo, che ha realizzato le illustrazioni di questo libro, per ascoltare anche il suo punto di vista.


[di Silvia Vecchini]

Il mio rapporto con la fiaba è tutto all’infuori di qualcosa di dolce o zuccherino. È pure lontano dalle fiabe sonore che non ho mai avuto in casa. Ce le aveva la mia amica Maria Chiara e, messa da parte la magia di una voce disincarnata che raccontava, le fiabe per me non abitavano neppure lì. Stavano invece ben custodite nella memoria di mia madre, erano una manciata, non di più. Poi intorno ai miei sette, otto anni le fiabe sono diventate quelle raccolte in un librone che ebbi in regalo.



Da bambina ho avuto davvero pochi libri. Non ho memoria di essere entrata in una libreria che non fosse una cartoleria con una smilza mensolina per i libri. Anche per questo motivo, ogni libro aveva per me un peso enorme e provocava un’onda lunga nella mia immaginazione. Tuttavia con le fiabe succedeva qualcosa di ancora più interessante. Si andavano a saldare con altre narrazione che riguardavano l’infanzia dei miei genitori e, ancora prima, dei miei nonni. Il contesto, un piccolo borgo di poche centinaia di abitanti sulle rive del Lago Trasimeno, era pressoché perfetto.


Mia madre e mio padre che vivono in due case divise da una stradina e da ragazzini si possono salutare da una finestra all’altra. Mia madre, se sta fuori, non può oltrepassare un arco che funziona da soglia proibita. Entrambe le loro famiglie sono famiglie di pescatori. Le donne lavano il bucato al lago e vanno nella macchia a fare la legna, gli uomini sull’acqua a gettare le reti esposti in ogni istante al pericolo visto che quasi nessuno sa nuotare. Non ci sono automobili, ci si sposta a piedi o in bicicletta. Solo uno dei miei nonni alla fine comprerà una motocicletta. Negli anni dell’infanzia, dentro i racconti dei nonni mi sembrava di scorgere con esattezza elementi comuni alle fiabe. Una consapevolezza che non mi permetterà mai di prenderle alla leggera. Ritrovavo nelle fiabe le loro parole, le vicende di tutti.


La spaventosa grandezza di un temporale o soltanto della notte, estenuanti spostamenti a piedi per qualsiasi cosa, i sentieri nei boschi, i pozzi, la malattia, i rimedi, le vecchine che ne sanno sempre una in più, il baratto (pesce in cambio di uova e farina), cesti e sporte da consegnare, ogni pericolo, porte aperte e bambini in casa da soli, invidie, inganni, l’ingiustizia, la povertà, le pance vuote, fame, la straordinaria importanza del pane, la sterilità o i troppi figli, le bambine mandate a servizio nelle case degli altri, figli di secondo letto, le matrigne, i coltelli, oggetti persi e stupendi ritrovamenti, gli animali come finestre sul mistero, i saggi consigli, l’intelligenza che la spunta, la fedeltà, un aiuto insperato, la fatica di trovare il proprio posto nel mondo, una trasformazione, il desiderio di liberarsi e liberare.


Per questo, anche per me, le fiabe sono vere. Scrive Calvino che le fiabe “sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza ed al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste…”



Mi emoziona sempre questo scritto visto che a questa conclusione sono arrivata presto e presto ne ho avuto conferma crescendo e attraversando io stessa “la parte della vita che è il farsi di un destino”. Scrivendo mi sono ritrovata là, in quella parte di vita, e ho provato ad ascoltare. Non senza sorpresa ho sentito che volevo scrivere a più voci. La scrittura faceva da spola tra fiabe diverse e diversi personaggi e cuciva, cuciva, cuciva e mi restituva un disegno unitario. Il materiale era davvero vivissimo per me, ad alta temperatura, un liquido incandescente. Ho deciso quindi di darmi un limite stretto. Non più di un testo per fiaba, non più di un personaggio. Difficile perché ogni fiaba era affollata e più voci premevano. Ho scelto di ascoltare quelle che affioravano con più prepotenza e mi sono costretta a non forzare mai.



Quando ho finito, la scrittura mi ha lasciato un sentimento duplice che ho trovato descritto perfettamente da Alice Murno in un racconto che mi ha ipnotizzata.
“Come certi bambini delle fiabe che hanno visto i genitori stringere patti con strane creature terrificanti scoprendo così che le nostre paure affondano le proprie radici in nient’altro che la verità (…), turbata e rinvigorita da quei segreti, non dissi una sola parola”.  Turbata e rinvigorita. Scrivere In mezzo alla fiaba, per un po’ mi ha lasciata così. Solo da poco, rigirando in testa l’idea che il libro era quasi pronto, sono andata a riprendere la raccolta di fiabe lette e rilette da bambina. Bene. Quando l’ho trovato e l’ho aperto ho capito da dove era venuta questa sollecitazione a scrivere mettendo in scena delle voci. In apertura di ogni fiaba, una pagina recava il titolo e indicava l’elenco dei personaggi che avrei incontrato leggendo.



Dunque non ho fatto altro che tornare all’inizio, interrogare il fondo, vedere chi, nel bosco scuro che ogni bambino attraversa crescendo, mi aveva parlato all’orecchio e portato in salvo dall’altra parte.

In mezzo alla fiaba, una lama
ho scoperto non è una sorpresa
neppure un reperto. Voce scintilla,
che luccica, vibra, ti può tagliare,
divide, incide, t’insegna a domandare.

A trovare, resistere, a scappare,
a tornare, esistere, mai più
sanguinare.


Un ringraziamento a Giovanna Zoboli che non solo ha dato ascolto a questi testi ma li ha accompagnati nel migliore dei modi facendoli incontrare con i colori, le forme e il linguaggio tagliente e vivo di Arianna Vairo. Che di zuccherino ha davvero poco.
Nel cuore dedico questo libro ai miei nonni: Candida e Adriano, Iolanda e Silvio.