L'esploratore di biblioteche che volesse cercare le prime tracce organiche di studio dell'illustrazione italiana, dopo essere passato per l'inevitabile e imprescindibile ground zero della storia dell'illustrazione italiana, Guardare le figure di Antonio Faeti, pubblicato nel 1972 da Einaudi e ripubblicato quarant'anni dopo da Donzelli), non potrebbe non notare nove piccoli segni su un terreno ancora sostanzialmente vergine, lasciati da una signora che sembrava non avere niente a che fare con questo mondo.
La signora è Paola Pallottino che, pur avendo illustrato alcuni albi negli anni Settanta (per la Emme edizioni di Rosellina Archinto, fra gli altri), era nota soprattutto come paroliera: suoi i testi per alcune delle più belle canzoni di Lucio Dalla come 4 marzo 1943, Il gigante e la bambina, Piazza grande e me ne dimentico sicuramente qualcuna.
Le nove piccole tracce sono i nove volumi della collana "Cento anni di illustratori", ideata e curata da Pallottino per la casa Editrice Cappelli di Bologna e inaugurata nel 1978 con un primo volume Il buttero cavalca Ippogrifo, dedicato a Duilio Cambellotti, con introduzione di Giulio Carlo Argan.
La collana ebbe poi vita breve e si esaurì in soli tre anni, ma in questo periodo è riuscita in due scopi: da una parte, avviare una sistematizzazione dello studio dell'illustrazione italiana; dall'altro fornire un modello strutturale per le successive pubblicazioni (introduzione critica, notizie biografiche, apparato iconografico, repertorio bibliografico).
A questo si aggiunge un piccolo tocco di genio della curatrice: associare a ciascun illustratore studiato la voce di alcuni personaggi che, apparentemente, con l'illustrazione non dovrebbero avere nulla a che fare. Si scoprono così legami insospettati quanto solidi fra il teatro, il cinema, la poesia e questa "arte povera" attraverso gli interventi di Paolo Poli (che introduce il volume dedicato a Sergio Tofano), Federico Fellini (che partecipa a una conversazione introduttiva al volume su Antonio Rubino) e Mario Luzi (che introduce Piero Bernardini). A queste voci impreviste si aggiungono quelle più prevedibili di alcuni critici, fra i quali Faeti, e illustratori.
Per lo storico, il collezionista e il curioso, questi nove volumi, reperibili senza eccessive difficoltà nel mercato antiquario, sono insostituibili. Ai nove volumi monografici, dedicati nell'ordine a Duilio Cambellotti, Sergio Tofano, Mario Pompei, Antonio Rubino, Enrico Sacchetti, Carlo Chiostri, Golia (Eugenio Colmo), Piero Bernardini, e Primo Sinopico, nella nostra collezione si affianca un decimo volume: Conformismo e contestazione nel libro per ragazzi. Storia e sperimentazione (1979). Un fuori collana legato a una mostra, ma che non si limita a essere catalogo di un'esposizione. Ma di questo parleremo prossimamente.
Si dice che l'amore sia cieco, senza pensare che alla cecità corrisponde una fra le forme più alte di veggenza: la capacità di vedere, con un occhio interiore, quel che gli altri non percepiscono, perché celato, rimosso, proibito, oscuro, negato. I due adolescenti, protagonisti di Moonrise Kingdomdi Wes Anderson (2012), accecati dall'amore, al punto di organizzare una fuga, sembrano gli unici dotati di sguardo nella comunità di cui fanno parte, insediata in una strana isola del New England, a metà fra Eden e campo vacanze (qui e qui due schede del film).
Sam, orfano in affido, ripudiato dai genitori affidatari
imbarazzati
dalle sue “stranezze”, una notte scappa dal campeggio scout per
raggiungere Suzy, figlia maggiore di una benestante famiglia di
avvocati, incontrata per caso un anno prima durante la rappresentazione scolastica
dell'opera Noye's
Fludd, di Benjamin Britten.
I due dopo essere rimasti folgorati e aver trascorso un intero anno a scriversi lettere, raccontandosi con lucidità e verità la propria condizione di estranei fra adulti non si capisce se privi di cervello o storditi da menage depressivi, finiscono per architettare una fuga d'amore, vera e propria ricerca di una armonia originaria perduta condotta, non a caso, lungo un primitivo sentiero tracciato da antichi abitanti indiani dell'isola (e qui il surreale berretto da Davy Crockett sfoggiato da Sam, passa da marchio di ignominiosa stranezza, a fulgente simbolo di autentica avventura).
La fuga di Suzy e Sam (interpretati dai bravissimi Kara Hayward e Jared Gilman), porta scompiglio nella comunità, atterrita e impreparata più che davanti alla ribellione dei ragazzi, siamo nel 1965, dalla propria incapacità di farvi fronte. Genitori, capi scout, polizia: tutti brancolano nel buio, resi ciechi da una stolta disposizione a non vedere se non quel che si vuole o rientra nella propria idea delle cose. Una forma di stupidità comica, surreale, portentosa, che, a fronte della vivida intelligenza dei due ragazzini, dotati di vista straordinaria, costituisce il nocciolo più autentico di questo film davvero bellissimo.
Del resto, sono gli occhi di Suzy a rapire Sam, al primo incontro. Nell'opera di Britten, Suzy interpreta il corvo, uccello della notte e della morte, simbolicamente legato alla preveggenza: nel costume nero, gli occhi enormi e splendenti di lei sono a un tempo finestre sulla propria anima e sul mondo. Sam grazie a quegli occhi vede ed è visto: e da questa esperienza folgorante di riconoscimento, che è l'amore, è tratto in salvo dalla solitudine della propria invisibilità.
Nelle prime immagini del film, del resto, vediamo i panorami dell'isola e i personaggi che la abitano inquadrati dall'ottica di un binocolo. Chi lo impugna, scopriamo subito, è Suzy, legata a doppio filo a questo strumento di visione, che costituisce, come lei stessa spiega a Sam, il proprio potere magico: la capacità di vedere le cose prendendo da esse una distanza, ma al contempo, avendo la possibilità di osservarle più da vicino.
Ci sarebbe molto da dire su questo film ricchissimo di spunti, dettagli, finissimo nella sceneggiatura (i dialoghi sono magnifici; cosceneggiatore è Roman Coppola, della nota famiglia di cineasti), nelle immagini (di un nitore surreale, astratto, quasi metafisico) e con un cast stellare (Bruce Willis, Harvey Keitel, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton). Il suo regista, attento storicamente al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza (basti pensare a Fantastic Mr. Fox e aI Tenenbaum), si muove con leggerezza, rapidità, destrezza, in equilibrio fra registri che senza incorerenze o cadute alternano ironia, dramma, comicità, lirismo, profondità psicologica.
Un discorso a parte merita la colonna sonora di Alexandre Desplat, incentrata su due opere famosissime di Benjamin Britten, il più celebre compositore inglese del Novecento: Young Person's Guide to the Orchestra e Noye's Fludd, mescolate a canzoni come Long Gone Lonesome Blues, di Hank Williams, o Le temp de l'amour di Françoise Hardy.
Come Anderson, Britten ha dedicato grande attenzione ai ragazzi nella sua opera: sia facendone spesso i protagonisti delle sue opere, come in Morte a Venezia o in Il giro di vite, sia scrivendo opere loro dedicate (come The Young Person's Guide to the Orchestra) o partiture pensate per le loro voci. Noye's Fludd non è un'opera per bambini, ma è costruita in gran parte sulle loro voci. Si tratta di una rappresentazione musicale che racconta in chiave comica la vicenda di Noè che, aiutato da una squadra di animali e di ragazzi, i figli e le nuore, in vista dell'annunciato diluvio, costruisce l'arca, sbeffeggiato malamente da un coro di pettegole capitanato dalla moglie, incredula della profezia (che saranno poi i ragazzi a portare in salvo, al momento del diluvio).
L'opera di Britten, molto più che un sottofondo sonoro, costituisce l'impalcatura stessa del film, la sua vita segreta sia dal punto di vista dello stile, giocato fra umorismo, innocenza e raffinatezza, sia per i ruoli che vi giocano adulti e bambini. Il film, non per nulla, si conclude con un'epocale tempesta, che muta i connotati stessi dell'isola dove la comunità abita. Catastrofe naturale che in modo imprevisto risolve anche le vite dei suoi membri. Insomma, davvero è una sorta di diluvio purificatore, salvifico, quello che si abbatte su questa vicenda. E anche in questo caso la conclusione positiva del racconto si deve alla serietà, alla fiducia, al coraggio, all'intelligenza dei ragazzi nel farsi carico della follia, dei limiti e dell'ottusità adulta.
Qualche tempo fa, Giuseppe Bartorilla, bibliotecario presso la Biblioteca di Rozzano, ha invitato i Topipittori a Digital Readers: Leggere-Promuovere-Ragazzi-Futuro. Le letterature per bambini e ragazzi ai tempi del web 2.0. Era il 5 ottobre, e insieme a me c'erano Gisele Rhein (responsabile della biblioteca per Bambini e ragazzi Berlin-Spandau), Caterina Ramonda (blogger e bibliotecaria nonchè redattrice di Le letture di Biblioragazzi), Francesco Langella (Direttore della Biblioteca Internazionale per Ragazzi "De Amicis" di Genova), Riccardo Cangini (autore di videogiochi), Barbara Servidori (Hamelin Associazione Culturale), Gabriella Marinaccio e Emanuela Semenzato (RAF - Biblioteca Rionale S. Ambrogio di Milano) e Stefano Parise (Presidente AIB) in qualità di coordinatore. Giunto alla sua terza edizione, questo convegno accoglie bibliotecari, editori, lettori e ragazzi, esperti di videogiochi e programmatori, per parlare di nuove tecnologie, ebook, biblioteche e apprendimento.
Quella che segue è una sintesi del mio intervento a DR3 con alcune riflessioni in più scaturite negli ultimi mesi.
L'ebook è arrivato anche in Italia. Rappresenta una porzione di mercato nettamente minore rispetto ai paesi europei e agli Stati Uniti, ma si nota una chiara tendenza alla crescita sia della domanda sia dell'offerta. Cresce anche il mercato dei dispositivi di lettura, e-readers e notebook. L'infrastruttura della rete internet, invece, nel nostro paese è, purtroppo, ancora arretrata in termini di copertura e di velocità di trasmissione, rispetto ad altri paesi come Francia, Germania, Olanda. Anche l'acceso alle reti wireless vede l'Italia in una posizione di retroguardia rispetto, per esempio, a Giappone e Stati Uniti, dove le reti e la connessione sono a disposizione dei cittadini a prezzi inferiori e vasta è la copertura anche gratuita e nei luoghi pubblici.
Questi fattori, uniti alla scarsità dei lettori in Italia e alla crisi economica, hanno determinato un ritardo sostanziale del nostro paese nell'acquisire mezzi e competenze e nello sviluppare strategie efficaci sul mercato dei libri elettronici.
I grandi editori, da circa due anni, hanno iniziato la grande corsa al digitale, sia adottando piattaforme esterne (iTunes, Amazon) sia dotandosi di proprie piattaforme di vendita (Edigita, per esempio).
Ma mentre per la narrativa il passaggio tecnico dal formato cartaceo a quello digitale si risolve in maniera quasi automatica (anche se non così scontata), per i libri illustrati la questione è più complessa. Ancora di più se si parla di albi illustrati (o picture-book): una tipologia di libro destinato prevalentemente (ma non esclusivamente) al pubblico infantile e giovanile e dove l'attenzione ai materiali e all'oggetto fisico sono due aspetti fondamentali.
Anche noi stiamo studiando il nostro ingresso al mercato digitale. Non farlo sarebbe ignorare un fenomeno sociale, culturale e di mercato tra i più interessanti degli ultimi anni.
Il problema che stiamo affrontando è: cosa vuol dire fare e-book per bambini? Come sono fatti? Come facciamo per farli?
Siamo andati a “spiare” quello che gli editori americani hanno realizzato nel campo dei picture books digitali (per ora chiamiamoli così). Alcuni sono ormai conosciutissimi, ma vale la pena rivederli:
Alice in Wonderland, ebook che ha fatto il giro del mondo, è forse uno dei più riusciti. Sia perché qualitativamente ben fatto, sia perché è il primo a sfruttare in modo abbastanza coerente il concetto di interattività, ciò che permette di modificare, agire sul libro digitale. Molti considerano questa la vera rivoluzione dell'ebook: si possono arricchire i contenuti presenti, si interagisce, si animano il testo e le illustrazioni. Da tempo si è arrivati al concetto, fantascientifico fino a pochi anni fa, di realtà aumentata (augmented reality, o AR), che ha moltissimi punti di contatto con il terreno per eccellenza della finzione, che è il libro. In comune hanno la capacità di creare un universo alternativo, o arricchito, aumentarne le dimensioni di esperienza, vera o finta che sia. Ecco possiamo dire che al libro cartaceo, con l'avvento degli ereaders, stia succedendo la stessa cosa: il nuovo supporto sfonda i confini fisici dei libro tradizionale per una fruizione, appunto, arricchita. E non per niente si parla più di "enhanced ebook" che non di "digital picture book".
Guardiamo ad esempio anche a I tre porcellini, un libro pop-up per iPad:
L'operazione compiuta qui è interessante dal punto di vista tecnico. Sfruttando il concetto del libro pop-up (chiaramente non riproducibile facendo saltar fuori dallo schermo i personaggi, almeno per ora), gli autori hanno pensato di dotare di una modalità “raggi X” le pagine.
Alcune pagine dei libri pop-up di D. Carter, da Brainpickings.
All'interazione (far girare le rotelline e vedere cosa succede ai personaggi), si aggiunge la possibilità di “smontare” virtualmente il libro e scoprirne i meccanismi di funzionamento. Si parte, insomma, dalla cartotecnica e la si ricodifica in ambito digitale. Per farlo, nella realtà, un bambino dovrebbe distruggere il libro. Qui, invece, può leggerlo e rileggerlo, studiarselo e pensarci su.
In Heart and the Bottle di Oliver Jeffers, giochi e storia sono stati mescolati in modo molto vario. La voce narrante accompagna (o meno, si può scegliere) il lettore lungo le pagine. Anche qui il libro fisico, l'albo, fa da modello: la lettura a voce alta fa parte della fruizione delle storie dalla notte dei tempi. Narrazione fatta da cantori, mamme e papà, dalla nostra stessa voce.
Insomma, l'ebook sta appropriandosi dei linguaggi del picture book per ricostruirne l'esperienza in ambito digitale. E proprio qui sta il punto.
The fantastic Flying books of Mr. Morris Lessmore, vincitore dell'Oscar 2012 come Miglior Cortometraggio di animazione, realizzato inizialmente come ebook da Moonboot Studios, è un ultimo caso interessante.
Quello che è stato concepito come libro digitale ha assunto vita propria, si è staccato dalla parola, dal “book”, per diventare corto d'animazione, tanto da vincere un Oscar. Splendidamente animato, un successo planetario. Una vicenda che si è evoluta in maniera quasi inaspettata.
La Rizzoli ha di recente acquisito i diritti dell'edizione cartacea e ha pubblicato il libro. Che tipo di operazione editoriale e di senso è stata compiuta? Nel mercato USA si tende allo sfruttamento di tutti i diritti relativi a una opera di ingegno, e in fin dei conti a voler ben guardare questa non è una novità. L'esempio più semplice sono i libri tratti dai film Disney, con i quali anche io sono cresciuta. Ma in questo caso, nel pieno del dibattito su ebook e libri cartacei, con il partito pro e contro gli uni o gli altri, con i fedeli del digitale che annunciano la morte sicura del libro di carta, ecco che si sente la necessità di trasferire questo cortometraggio, questo enhanced ebook, proprio su carta, come se mancasse qualcosa alla sua "vita".
Non posso sapere se la logica è quella che espongo, ma ne sono abbastanza convinta. Volenti o nolenti, il libro in questo caso ha dimostrato ancora una volta il suo essere indispensabile. E diverso. Indispensabile, perché è il mezzo più universale, immediato, per il suo arrivare nelle case, nelle mani di bambini che non hanno un e-reader ma che così possono avere accesso alla storia. Diverso perché, se è difficile spiegare a chi non se ne occupa la differenza tra un picture book e la sua possibile app, o l'ebook, in questo caso il fatto che il processo creativo sia inverso aiuta ad analizzare la questione. Sfido chiunque a dire che leggere il libro di carta di Mr. Morris è la stessa cosa che leggerlo su ipad. Semplicemente, è diverso. Non meno bello, con immagini meno accattivanti, con una storia più debole. Diverso.
Avete visto bene: è un vasino dotato di supporto per l'Ipad.
Tecnicamente, l'ipad (che per ora la fa da padrone in quanto a qualità) permette ormai una risoluzione altissima di immagine, e di pari passo, programmatori e sviluppatori possono creare quasi qualsiasi effetto ci passi per la mente, con risultati eccellenti. Ma nel passaggio da cartaceo a digitale, e viceversa, cambia totalmente l'esperienza di lettura. Dire che gli ebook forniscono una lettura interattiva mentre la lettura del libro è, potremmo dire, frontale, è per i picture book quanto di più lontano dalla realtà.
Pagine da B. Munari, Nella nebbia di Milano, Corraini.
Bibliotecari, editori, insegnanti, genitori sanno che leggere un libro insieme, sfogliare le pagine, risfogliarle ancora, toccarle e persino annusarle, strapparle, usurarle e disegnarci sopra sono tutti elementi che fanno parte della lettura. E dal punto di vista dell'editore, carta, formato, copertina, font del testo sono elementi strutturali che vanno necessariamente di pari passo con la creazione del libro e con il contenuto che ospitano, influendo direttamente sulla struttura della narrazione. Superfluo citare Bruno Munari, o recentemente Katsumi Komagata, tra coloro che hanno fatto della fisicità del libro e dello studio del rapporto fra supporto e narrazione il punto di forza della loro creazione di picture books. Superfluo dire che leggere Nella nebbia di Milano sfogliando le pagine trasparenti, addentrandosi concretamente nella nebbia e scoprendo, nell'atto dello sfogliare le pagine, ciò che nasconde, non è in assoluto una esperienza di lettura paragonabile a quella del corrispondente, se mai ci fosse, ebook.
Pagine da A cloud di K. Komagata, One stroke.
Non tutto deve diventare per forza ebook. E anzi, forse la definizione di ebook, o enhaced ebook, così giovane, già ci sta stretta. Perché non di “libro” stiamo parlando, e nemmeno semplicemente si tratta di libro “e-”, cioè elettronico. La questione va molto al di là della resa in altro formato e coinvolge tutti gli aspetti del fare i libri, e del leggerli.
Su questo, è stato per me illuminante un articolo scritto da Craig Mod sul suo blog.
Mod constata, non parlando dei picture books ma in generale del libro illustrato, che vi è una differenza sostanziale tra contenuti indipendenti dalla forma e contenuti che invece si completano, definiscono e vengono fruiti dal lettore grazie anche alla forma in cui sono presentati. In sostanza, la qualità della forma determina la qualità del contenuto. Passare al digitale vuol dire riuscire a fornire lo stesso contenuto su un supporto diverso senza che ci sia uno scadimento della qualità della lettura e del libro.
Topipittori ha in catalogo circa 100 titoli, ma non tutti possono essere trasferiti in digitale. Come editori, dobbiamo fare un salto di mentalità, per adattarci a una situazione per la quale non c'è una preparazione tecnica né progettuale. Siamo abituati e siamo competenti sul libro di carta. Ecco perché una buona sinergia tra editore e programmatori, sviluppatori e grafici è essenziale (come già dichiarato da Giulia Orecchia su questo blog).
Di fronte a questi problemi di approccio, elaborazione e progettazione degli ebook, in un mercato in crescita, ma ancora giovane, la questione è tutta aperta. Il dialogo tra le forme digitali e cartacee è ricchissimo e dalle mille potenzialità. La sperimentazione è d'obbligo, ma deve svolgersi non perdendo di vista la qualità specifica del libro elettronico e quelle dell'albo nell'ottica di una convivenza e compresenza di cartaceo e digitale che permetta, per esempio, la scelta e la pluralità nella lettura. E di finirla con le apocalittiche affermazioni sulla morte dei libri. Perché dover scegliere quando possiamo avere entrambe le cose, e leggere storie in tanti modi diversi?
Buongiorno a tutti, mi chiamo Barbara Mazzoleni e sono una illustratrice e graphic designer.
Ho la fortuna di lavorare senza risentire della crisi dal 1988 grazie alle mie competenze sui mezzi digitali (sia come designer free-lance, che come docente di Progettazione Digitale e Tecniche di Illustrazione Digitale in alcune importanti scuole di Design di Milano e Lombardia). Faccio questa premessa perché trovo che la mia formazione e professione rappresentino un paradosso rispetto all'esperienza che vi sto per raccontare e che ha mi ha segnata profondamente, come persona, mamma e professionista.
Nel 2011, a marzo, cercavo su internet approfondimenti sui Prelibri di Bruno Munari: ho una bimba che allora aveva quattro anni e mezzo, Viola, e volevo fare qualcosa di speciale per lei e con lei.
Conosco Munari perché da giovane, nel 1987, ho avuto la fortuna di partecipare come assistente ai famosi laboratoriGiocare con l'Arte che il grande maestro tenne a Palazzo Reale di Milano: mi ci portava una delle sue storiche collaboratrici, Coca Frigerio, allora mia docente di Illustrazione alla Scuola del Fumetto.
La lezione di Munari e di Coca Frigerio è sempre rimasta viva, anche
se spesso inconsciamente, nel mio lavoro e nel mio approccio alla
comunicazione visuale. Con una bimba di quattro anni e mezzo, come non
ritornare ad approfondire cose che avevo messo da parte, tutta presa
dalla mia carriera professionale digitale?
Così, mentre cercavo informazioni sui libri di Munari attraverso un motore di ricerca, per caso mi è apparsa la pagina di un blog che riportava il bando della Prima Edizione del Concorso Nazionale di Editoria Tattile Illustrata Tocca a Te!, per bambini non vedenti e ipovedenti fino ai 12 anni.
Che strano: non avevo mai partecipato a concorsi, e nemmeno mai
desiderato fare libri per l'infanzia, nel mio percorso professionale, ma
in questo caso è stato come se improvvisamente mi si fosse accesa una
lampadina nella testa. Io lavoro da 25 anni con le immagini, come
illustratrice, come graphic designer, come docente: le immagini e
l'espressione visuale in tutte le sue forme sono una parte
imprescindibile di me. Sapete quando uno pensa: "Oddìo, se
dovesse succedermi qualcosa di brutto, per favore, qualsiasi altra cosa,
ma non alla vista, altrimenti come farei a godere del bello con i
miei occhi?" Ecco, una cosa così.
Scoprire attraverso internet questo mondo fino ad allora a me sconosciuto, fatto di illustrazioni per non vedenti o ipovedenti, mi ha fatto innanzitutto pensare a quanto sia fortunata; e soprattutto, ormai abituata da parecchio a lavorare praticamente solo con mezzi digitali, mi ha motivato alla prova di inventare un libro per chi non può vedere e illustrarlo con delle immagini tattili.
Ho subito deciso di partecipare al concorso, ma credetemi, non
perché avessi qualche minima pretesa di successo: l'ho fatto per me
stessa, perché ero colpita da questa forma di comunicazione, per
sperimentare qualcosa di nuovo.
Inoltre il bando del
concorso chiariva che tutti i partecipanti potevano donare il proprio
libro alla Federazione Italiana Istituzioni Pro Ciechi, che si sarebbe
così arricchita di nuovi materiali e spunti
Per la precisione, il concorso era stato organizzato dalla Federazione Nazionale Istituzioni pro Ciechi, dalla Fondazione Robert Hollman e dall'Istituto dei Ciechi di Milano. La giuria sarebbe stata composta da esperti tiflologi vedenti e non vedenti, esperti di produzione di materiale tiflodidattico, rappresentanti dei genitori, rappresentanti del Ministero dei Beni e Attività Culturali, pedagogisti ed esperti di letteratura per l'infanzia.
Mi sono buttata a capofitto in questo progetto, impegnandomi in una
ricerca molto intensa per imparare tutte quelle caratteristiche tecniche
e quei codici di rappresentazione che sono indispensabili per
confezionare un libro tattile davvero adeguato per i bambini con deficit
visivi: in internet ho trovato un po' di materiale. In italiano si
trova poco, a dire il vero, mentre in lingua inglese ci sono diverse
guide, relazioni, articoli di esperti eccetera.
Comunque, riassumendo brevemente: innanzitutto bisogna analizzare formato e tipo di allestimento del libro; che sia facilmente e completamente apribile (il libro non deve restare aperto a "V", si deve appiattire completamente), con una misura adeguata che lo renda fruibile e sfogliabile dalle piccole mani di un bambino, per di più non vedente.
Poi, bisogna capire quanto i codici di rappresentazione siano diversi dai nostri, di persone "normodotate della vista": un non vedente dalla nascita non capisce la prospettiva, perché ovviamente non la conosce, quindi tutto va rappresentato frontalmente o di profilo, nella sua interezza e non parzialmente; le figure non devono essere sovrapposte, altrimenti non è possibile seguirne il profilo correttamente con le dita.
Non devono mancare parti di figure: se si vuole rappresentare un
animale che ha quattro zampe, non se ne possono mettere due lunghe e due
corte perché sono di scorcio, o addirittura solo due perché le altre
sono nascoste, altrimenti la figura non è comprensibile.
Mi sono
documentata e ho studiato anche il meccanismo di formazione delle
immagini mentali nelle persone non vedenti per capire meglio come
evitare errori di rappresentazione.
I materiali devono essere molto significativi da un punto di vista
tattile, oltre che avere uno spessore marcato. Sapete quanti
materiali belli e interessanti per me - vedente - ho scartato perché
assolutamente insignificanti, se toccati a occhi chiusi?
È
una prova che invito tutti a fare. Ricordo che in quel periodo sembravo in preda a smania: toccavo tutto e tutti, per esplorare i materiali
che capitavano sotto le mie mani.
Poi c'è la questione dei testi (il libro doveva avere, oltre alle
illustrazioni materiche-tattili, anche un testo in Braille e con
caratteri per ipovedenti): il Braille ha dimensioni fisse e non può essere
ridimensionato a piacere solo perché a noi grafici piace un
corpo più piccolo o più grande; il testo per ipovedenti, invece, deve
avere un forte contrasto cromatico, dei font assolutamente chiari,
lineari e leggibili e rispettare dimensioni minime. Quindi,
immaginate per una come me, abituata a rompere le scatole ai suoi
allievi sulle dimensioni e sul valore estetico del lettering: è stata
una lotta con i miei occhi e con le mie abitudini.
Per produrre le pagine stampate con il Braille mi sono dovuta recare diverse volte all'Istituto dei Ciechi di Milano, dove ho trovato la grande disponibilità e competenza della dottoressa Paola Bonanomi e del responsabile del centro di produzione del materiale tiflodidattico, Aurelio Sartorio, che mi hanno gentilmente accolto, e oltre a stampare su fogli di acetato trasparente il Braille così come serviva al mio progetto, mi hanno fatto visitare il loro centro di produzione e laboratorio: un posto pieno di tesori tattili.
Le immagini che illustrano questo post si riferiscono al libro di Barbara Mazzoleni Scopriamo le forme con il ditino, vincitore del premioTocca a te! come miglior libro assoluto e miglior libro didattico, di cui verrà trattato diffusamente nella seconda parte del post.
(Fine prima parte; la seconda parte, venerdì 1 febbraio)
Otto lezioni intense, travolgenti, ricche di informazioni e preziosa occasione di confronto.
Otto serate vissute con enorme interesse e curiosità.
Otto episodi che mi piacerebbe raccontare uno per uno (e forse lo farò), ma che ora tenterò di riassumere in questo lunghissimo post.
Ma partiamo dall’inizio: c’era una volta, un anno e qualche mese fa, una serie di bei post su alcuni blog (fra l'altro, qui e su Le figure dei Libri) che parlano di un corso in cui Paolo insegna a “fare libri”.
Li leggo con curiosità, mi informo, scrivo qualche mail… e per un po’ me ne dimentico.
Fino a questo ottobre quando mi tornano in mente il corso e il programma. E la voglia di ampliare le mie conoscenze editoriali mi spinge a partecipare alla pre-selezione.
Dopo una decina di giorni arriva la lieta notizia: sono ammessa!
I miei appunti.
Così, una fredda sera di novembre prendo parte alla prima lezione del corso, assieme a 15 compagni d’avventura di diversa origine e professione: dagli Appennini alle Ande, passando per l’Ungheria e l’Iran (non scherzo!), illustratori, architetti, bibliotecari, studenti, insegnanti, impiegati comunali...
In queste prime ore Paolo, dopo breve presentazione, comincia a somministrarci informazioni culturali, storiche, economiche, commerciali, contabili e tecniche.
E noi riempiamo fogli di appunti, pagine di grafici sul funzionamento della filiera editoriale, righe e quadretti colmi di numeri e percentuali.
Giulia, nel frattempo, ci parla di “autoproduzione” e parte un confronto diretto sui costi, i guadagni e le fatiche di un editore (italiano) e di chi i libri li fa e li promuove da sé!
Torno a casa con la mente piena, un gran sorriso e… una lista di strani oggetti da recuperare. Alzi la mano chi di voi sa cos’è un creaser?
Ecco che cos'è un creaser.
Il secondo incontro è altrettanto ricco e generoso di informazioni, questa volta sull’anatomia dell’oggetto libro. E i nostri taccuini si coprono di termini tecnici (plancia, quadrante, canaletto, segnatura), termini buffi (cartone grigio-grigio, pancia, piede), alcuni onomatopeici (standard din), disegni e schemini.
Torno a casa con la testa che fuma… (ma a questo punto ho già scoperto cos’è il creaser!)
La terza lezione riserva sorprese.
Dopo interessanti spiegazioni su come vengono confezionati i libri arriva, finalmente, il momento tanto atteso! Un momento che Paolo e Giulia presentano con uno strano luccichio negli occhi, quello che scatena gli animi e le mani: la piegatura dei fogli!
La classe alza la testa dal quaderno, riempie i tavoli di carta e cartoncini ed è tutto un piegare di qua e piegare di là! E chissà perché… lo sguardo di Paolo e Giulia è sempre più vispo, somiglia vagamente a quello di un bambino che ha trovato perfetti compagni di gioco.
Pieghiamo fogli grandi, fogli piccoli, 2, 3, 4 volte e poi, su suggerimento degli insegnanti, pratichiamo qualche taglio qui, qualche incisione lì… e nuove strutture cartacee si formano sotto i nostri nasi.
Ci rilassiamo, ci divertiamo, perché è proprio vero che il “fare” aiuta a sbloccarsi; e con il gioco delle pieghe, mi presti il bisturi, come l’hai fatto questo… inizia la vera interazione di gruppo.
L’espressione di Paolo, ora, è completata da un largo e sospetto sorriso…
Ma in quel momento, sono troppo entusiasta dell’utilità e dell’efficacia del mio creaser e del mio bisturi per pensarci, finché un rumore di gessetto sulla lavagna mi costringe ad alzare gli occhi: COMPITI A CASA!
Compiti?
Certo, è una vera e propria scuola questa.
Un compito a casa di Marissa Morelli...
Il primo compito creativo è quello di ricavare una storia, un progetto, qualcosa che abbia senso partendo da una delle strutture appena create. Si comincia seriamente a progettare libri!
Il ritorno a casa, stavolta rasenta la follia. Nella mia testa si accavallano immagini, idee, creazioni a cui devo dar forma subito! Il processo di creazione inverso suggeritoci (dal contenitore al contenuto) va a stimolare non so quali parti del cervello e, incredibilmente, apre un vaso di Pandora.
... e uno di Vessela Nikolova.
La settimana che segue è più intensa del solito e arrivo alla quarta serata con un’energia che mi mancava da tempo, quella particolare sensazione che nasce dalla passione, dal desiderio di creare, dal confronto e dalla condivisione con persone che parlano la tua stessa lingua (e che si esaltano per una piega, per una cucitura o per la scelta di un certo tipo di carta!).
Lo spirito di gruppo ha preso vita e cresce. Le lezioni seguenti sono come un’onda, costellate di esercizi pratici in classe, a casa, con la testa e con le mani, da soli, in coppia o in trio!
E più “ostacoli” ci vengono posti, più la nostra creatività si esprime nel trovare soluzioni.
Una legatura di Elham Asadi.
Ogni volta Giulia e Paolo ci mostrano nuovi tipi di rilegatura e assemblaggio dei fogli; e noi studenti ci troviamo a maneggiare aghi, fili, martelli e punteruoli, trasformati in novelli sartorelli (non sempre agili ma decisamente creativi!).
Impariamo a riconoscere e fabbricare leporelli, fascicoli, pamphlet, dos-à-dos, legature giapponesi, wendingen, cuciture copte, nodi da marinai e CSB (crossed structure binding).
E nelle settimane tra un incontro e l’altro, ognuno di noi coltiva idee e produce “oggetti e progetti libro” sottoposti poi all’esame del resto della classe e degli insegnanti.
Fabio Facchinetti presenta il set portatile di libri da sgranocchiare...
Ho visto cose che voi umani… non potete davvero immaginare (ma che forse avete già visto qui e qui): libri-gioco, libri-laboratorio, rilegature impossibili, copertine intrecciate, addirittura set di libri da sgranocchiare!
E la diversità di origine e formazione dei partecipanti, i differenti approcci e punti di vista sono una fonte continua di stimoli e arricchimenti. Un vero e proprio tesoro a cui attingere.
Gli insegnanti ci guidano in questo percorso ponendo domande, dubbi, soluzioni e considerazioni tecniche ed economiche.
... e dimostra come indossarlo con disinvoltura.
Arriviamo all’ultima lezione carichi di creatività e di… cibo (la festa finale non poteva certo mancare!). Nutriamo corpi e spirito, in un utilissimo e divertente esercizio in cui ognuno di noi presenta nel modo più efficace possibile un suo progetto a un compagno eletto, per l’occasione, “editore” (e non pensiate che interpretare l’editore cattivo sia facile… non lo è!).
Inutile dire che le auto presentazioni sono varie e personalizzate; ci sono i timidi e veloci, i comici e assai convincenti, i super organizzati con tanto di spiegazione scritta e i sicuri di sé.
Ne nascono confronti, dibattiti, consigli, critiche costruttive e risate.
Antonio Laino presenta la sua versione delle calviniane Città invisibili
E Rosana Liali ci spiega che la periferia desidera diventare città.
Il corso Progettare libri è diverso da quelli, da me, sperimentati finora.
Permette di comprendere i meccanismi della produzione dei libri a più livelli, offrendo la possibilità di osservare il “prodotto libro” non solo dal punto di vista di illustratori, ma soprattutto da quello degli altri fondamentali protagonisti: editori, stampatori, rilegatori, distributori, librai, clienti etc.
L'autrice di questo post si finge editore, mentre Vessela Nikolova
le presenta il suo libro sui colori....
... con copertina a intarsio in plastica trasparente.
Si esamina (e viviseziona) l’oggetto libro da prospettive differenti, a 360°; questo processo stimola un’apertura mentale e un approccio nuovo al “fare libri” che tiene in conto, oltre al contenuto creativo del progetto, un insieme più ampio e complesso di fattori e ruoli.
Anche Barbara e Ilaria (alias Passpartu) si sono confrontate
con la severità di Illustrilla Editore.
Progettare libri è più di un corso: è un laboratorio, un’officina, un luogo d’incontro, un’occasione di crescita personale, culturale, artistica e professionale.
Mi permetto di citare le parole scritte in questo post da Ilaria, Gloria e Elisabetta a proposito del corso: «[…] Cinque giorni che costringono a reinventarsi. Ed è normale, quando passa l'uragano.»
L’uragano ha travolto anche me, regalandomi il desiderio e la necessità di andare avanti, creare, reinventarmi, scoprire sempre più cose e, come ci hanno decisamente insegnato Paolo e Giulia, imparare a condividere e a lavorare (bene) con gli altri.
Che ne dite? Ce la siamo meritata un po' di festa?
E non pensiate che sia finita qua, perché ho il sospetto che quest’avventura sia solo all’inizio!