lunedì 31 gennaio 2011

Ho detto «no» novecentoventi volte al giorno

Non è facile dire no. Ma in tre giorni mi è toccato dire no 2760 volte: tante quanti i candidati non selezionati alla Mostra degli illustratori di quest'anno.
I sì sono stati solo 76. Alcuni di questi mi sono venuti spontanei; altri sono il frutto di una discussione con gli altri membri della giuria (che, per la cronaca, erano Ellen Seip, Sophie Van der Linden, Carll Cneut e L'uboslav Pal'o).
Da sinistra: L'uboslav Pal'o, Sophie Van der Linden,
Carll Cneut, Ellen Seip e il sottoscritto.
E, in effetti, la cosa che mi ha stupito di più è stata la necessità di trovarsi discutere, analizzare, riguardare e rivalutare illustrazioni per aggiungere qualche illustratore in più, ai 60 che avevano convinto tutti i membri della giuria. Mi sarei aspettato, invece, che accadesse il contrario: trovarsi con qualche decina di illustratori di troppo rispetto alle possibilità di esposizione e dover procedere a un'ulteriore scrematura.

Fra qualche settimana, il risultato del lavoro di selezione operato dalla giuria di cui ho fatto parte sarà sotto gli occhi di tutti. E tutti potranno giudicare se il nostro è stato un buon lavoro, se questa mostra riuscirà a offrire nuovi stimoli, a ispirare il lavoro dei giovani, a mettere in luce qualcosa di nuovo. Se abbiamo saputo delineare un ritratto corretto di ciò che va passando nel mondo dell'illustrazione per l'infanzia.

Ma è difficile dimenticare tutti gli altri, pensando all'investimento personale e professionale che quasi tutti i candidati hanno riposto nella propria partecipazione a quello che da anni è uno dei grandi eventi del settore. Dico “quasi” tutti perché non ho potuto non notare come i lavori di alcuni illustratori (pochissimi, in verità, ma già pubblicati e affermati) denunciassero chiaramente una totale mancanza di elaborazione: ho pensato a una burla o, forse più verosimilmente, a un modo per ottenere l'agognato “pass” per la Fiera, concesso a tutti i candidati. Ogni commento è superfluo.

I 2760 no, non sono tutti uguali. E credo sia interessante spiegare le più comuni ragioni di tanti miei rifiuti. La prima e, purtroppo, la più diffusa, è la mancanza di competenze di base nel disegno. Sono moltissimi i lavori che rivelano una tecnica insufficiente a fare dell'illustrazione una professione. Non dovrebbe essere necessario sottolineare che, per fare l'illustratore, è necessario saper disegnare. Solo sapendolo fare si può decidere di dimenticarselo e imparare a disegnare male.

La seconda è la mancanza di una ispirazione autonoma, originale. Come dice Guido Scarabottolo, in apparente contraddizione con quanto detto sopra: «Si disegna più con la testa che con le mani.» E la testa deve pensare pensieri propri. È giustificato e naturale che i giovani (soprattutto i giovani) facciano riferimento all'immaginario dei grandi, contemporanei o del passato. Ma, per poter aspirare a fare dell'illustrazione una professione, è necessario aver digerito bene la lezione di chi si sceglie come maestro. Questa influenza può lasciare una traccia, un segnale, ma niente di più.

Questo ci porta a una terza ragione di esclusione che, a mio avviso, riguarda le scuole. Ho notato che spesso le scuole puntano molto alla propria immagine, a creare uno “stile della scuola”, più che a sviluppare e liberare i talenti personali dei propri allievi. Ma questo prende poi la forma di lavori troppo uguali, carenti di originalità nello stile e nell'interpretazione. Questo è, a mio avviso, un peccato grave. Del quale però si macchiano gli insegnanti, non gli allievi, che ne pagano le conseguenze.


Fra gli esclusi ci sono poi decine di illustratori che possono a buon diritto definirsi professionisti ai quali ha arriso, o potrebbe arridere il successo, e di esordienti con eccellenti possibilità di pubblicazione. Fra questi ce ne sono alcuni che, facendo parte di correnti e stili riconosciuti, non mi sono sembrati sufficientemente rappresentativi di ciò che il mondo dell'illustrazione ha da offrire. Altri sono semplicemente stati sfortunati e, pur avendo presentato lavori ottimi si sono scontrati con la qualità degli altri lavori, il gusto personale dei giurati, e forse anche un po' di sfortuna.


[Queste considerazioni sono mie personali: non sono state condivise con gli altri membri della giuria e non ne rappresentano le opinioni. Le considerazioni finali della Giuria e dei singoli giurati saranno pubblicate nel catalogo della Mostra.]

venerdì 28 gennaio 2011

La voce del silenzio

Sarà perché la memoria e il suo ascolto sono un fatto eminentemente interiore, e richiedono spazi e tempi propri, separati dai suoni, dai gesti, dalle consuetudini e dalle parole della comunicazione ordinaria, fatto sta che l'idea di un'Accademia del Silenzio è venuta alla luce dalle molteplici esperienze maturate nella Libera Università dell'Autobiografia, e da una sua costola, materialmente, è nata, ad Anghiari, nel dicembre 2010. Suoi patrocinatori sono la giornalista e ricercatrice Nicoletta Polla Mattiot e Duccio Demetrio, ordinario di filosofia all’Università Milano Bicocca.
Come si legge sul sito, obiettivi di questa singolare istituzione sono la valorizzazione e il rispetto del silenzio e dei suoi luoghi, della ricerca interiore, dell'ascolto di suoni, voci, natura, contro l’inutile rumore; l'approfondimento delle occasioni e delle risorse intellettuali che hanno la necessità del silenzio; la sperimentazione di un “linguaggio del silenzio” e di una sua grammatica, necessari all'ascolto e alle parole. Segnaliamo, fra l'altro, che qualche giorno fa a questa iniziativa Radio3 Suite ha dedicato largo spazio.

Anne Herbauts, Silencio, Casterman 2005.

Nel sito, ci ha colpito molto un articolo di Anna Cecchini, La voce del silenzio, che racconta della relazione fra bambini e silenzio in una ordinaria giornata di vita alla scuola d'infanzia. Le sue parole ci hanno conquistati, e dato la misura, nel breve volgere di poche frasi, di quanto, nella pratica educativa, il silenzio sia una dimensione necessaria, addirittura vitale ai tempi e ai modi della sensibilità e della percezione infantile.
Anna Cecchini, della quale trovate qui un dettagliato profilo, è collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia. Attualmente opera presso l’istituto comprensivo di San Giovanni in Marignano, in provincia di Rimini. Da anni, sperimenta insieme ai bambini la pratica narrativa autobiografica, in questo caso legata al silenzio. Quando l'abbiamo contattata per chiederle il permesso di pubblicare il suo scritto, ci ha raccontato in che modo, ogni mattina, porta fra i bambini questa esperienza.

Anne Herbauts, Silencio, Casterman 2005.

Al mattino, l'ingresso dei bambini a scuola è accompagnato da un sottofondo musicale. Il momento è prolungato, vivace, accogliente, connotato da saluti, scambi, dialoghi fra la maestra, i genitori e i bambini, che si ritrovano e interagiscono liberamente fra loro negli spazi predisposti (l’angolo del disegno, dei libri, della casa della bambola, del tappeto con i materiali, il tavolo degli animali ecc); alle nove segue la chiusura del cancello. Dopo un veloce riordino degli ambienti, Anna si siede in quello che viene chiamato “l'angolo delle parole”, dove invita i bambini a fermarsi, a sostare all'ascolto «del silenzio che c'è in tutte le cose». Ogni giorno quindi, i bambini sono invitati a leggere il silenzio «che si trova ovunque»: si osserva un colore, un oggetto e silenziosamente si pensa e ogni pensiero si ricollega a un altro e poi a un altro ancora. Dopo questa lunga pausa, in cui i bambini singolarmente sono assorti nell'ascolto, e immersi a riflettere sull'esperienza che fanno, segue l'invito di Anna a comunicare agli altri impressioni, sensazioni, emozioni. Si ricomincia, dunque, a parlare, ma, secondo le indicazioni della maestra, a bassa voce: perché le parole che sorgono dal silenzio portano con sé qualcosa di importante di questa esperienza, sono parole che nascono diversamente e hanno bisogno di una voce che sappia dire, con il tono giusto, la cura e l'attenzione. Mentre i bambini parlano, Anna scrive, appuntandosi i loro pensieri. E quando lo scambio ha termine, Anna legge il frutto delle loro osservazioni, citando i loro nomi e i bambini si sentono fieri. E di nuovo ci si scambiano riflessioni, idee, considerazioni, su quel che si è detto, ascoltato, provato. A noi sembra che il lavoro di Anna abbia un'importanza e una profondità straordinarie. E sia il segno di un umanesimo vivo, attento, tenace, che non si arrende al caos e al degrado, e li combatte, certo, silenziosamente, ma con armi affilate.

Anne Herbauts, Silencio, Casterman 2005.

Vi proponiamo lo scritto di Anna, certi che anche a molti di voi questa esperienza interesserà.


Scuola dell’infanzia… ore 9,15 di una mattina di dicembre 2010.
Così, nell’angolo delle parole, si comincia una nuova giornata.

Finestra mezza aperta… vociare di bimbi…  confusione, frastuono, chiasso… tanto!
Poi un gesto, un richiamo all’ordine, all’ascolto, all’attenzione…
 “Bimbi… Ssssss… arriva… è la voce del silenzio!”
 

E subitamente calano i toni, sopraggiunge la calma… bisbigli… silenziosità.
 


Occhi grandi, incuriositi scrutano la finestra. Affascinati, aspettano ormai ogni mattina di ascoltare quel magico silenzio, pressoché amico, che torna a trovarci per indurci al suo stare… e nell’attesa osserviamo, ci incantiamo… Ammaliati, scopriamo la meraviglia nascosta nei colori e nelle cose che ci circondano.

Ora ascoltiamo: si odono rumori diversi che si sentono solo quando c’è davvero il silenzio, effetti sonori mai uditi. Il fruscio delle foglie che si distaccano dagli alberi trasportate da una folata leggera… “il vento che fa il tamburo”, un cane che abbaia “da laggiù”… macchine lontane che suonano… e poi più niente! Silenzio…! Silenziosamente captiamo il suo benessere, la sua armonia che si addentra nei nostri corpi e diventa rilassamento, attenzione, ascolto… è emozione!


Anne Herbauts, Silencio, Casterman 2005.

“Io lo sento nelle braccia, mi scende dalla testa nelle braccia e poi nei piedi”(C. 5 a)

“È bello, lo sento nella testa, gira intorno!”(L. 5 a.)

“Si, è come una palla che gira…!”(S. 5 a.)

“Io lo sento qui, sul collo… mi tocca!”(S. 3 a.)
“Il silenzio ci fa stare riposati e si sta anche bene!” (A. 4 a.)

“Mi fa tranquillare la testa!”(K. 5 a.)

“Mi fa riposare la testa e il cervello… Si pensa di più”

“Anch’io lo sento nella testa: mi fa sentire di più le cose, le vedo di più. Col chiasso queste cose non ci sono !” (L. 5 a.)

“Io lo sento nelle gambe… si muovono più piano!”(A. 4 a.)
“Le mie orecchie non fanno più zzzzzzz…!!!”(A.4 a.)

“Ci fa venire belli, zitti…”(G. 3 a.)

“Mi fa bene nel cuore e mi fa diventare bella da tutte le parti… anche più buona”(V. 4 a.)

“La magia del silenzio mi fa essere allegra e mi fa pensare bene. Fa bene al corpo perché bisogna ascoltare tutti, col chiasso non si può ascoltare, col silenzio si…” (S. 5 a.)

“C'ho i brividi e mi sono emozionato… mi piace, mi fa fermare” (M. 5 a.)
 
E dopo un po’sembriamo più leggeri, più sorridenti e i nostri sguardi sembrano brillare come incantati dalla tranquillità.


Anne Herbauts, Silencio, Casterman 2005.

Spontaneamente, “nell’angolo delle parole”, in silenzio, di giorno in giorno il gioco si gode, si prolunga… le sensazioni aumentano; le parole che volano nell’aria sono analisi vere di ascolti interiori, di emozioni. L’esperienza ormai è diventata parte anche del gioco libero. Volutamente i bambini, a piccoli gruppi, di tanto in tanto chiedono di dividersi in spazi più tranquilli della scuola, “per parlare piano” e per ascoltare “la voce del silenzio”.

giovedì 27 gennaio 2011

La favola nera di Terezín

“Nessuno può spiegare esattamente cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui sono celati i terrori dell'infanzia” afferma Austerlitz, professore di storia dell'architettura, studioso di fortezze, caserme, stazioni, carceri e tribunali, afflitto da una tragica assenza di memoria personale. Fino alla scoperta di essere giunto a Londra, molti anni prima, a bordo di uno di quei convogli partiti dall'Europa centrale per l'Inghilterra, carichi di bambini, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento di tutta Europa.
Il romanzo, splendido, di cui stiamo parlando è Austerlitz, di W.G. Sebald, Adelphi 2002, implacabile e disperata cronaca di un riaffiorare di ricordi legati alla propria vicenda familiare e al proprio tempo. Angosciante e puntuale viaggio attraverso luoghi e tempi della demenza nazista.
Disegno proveniente da Terezín. Collezione Museo ebraico di Praga.
 In questa rassegna degli orrori, ampio spazio è riservata alla descrizione del campo cecoslovacco di Terezín, dislocato nella città-fortezza costruita nel 1780 dall'imperatore Giuseppe II, e che all'inizio del 1944 fu protagonista di uno degli eventi più sconcertanti del nazionalsocialismo: quella che fu chiamata la grande “Opera di Abbellimento”. In previsione di una visita estiva di una commissione della Croce Rossa Internazionale, sotto la guida delle SS, il campo di Terezín fu trasformato, in pochi mesi, in una “comunità modello” per bambini e anziani, con panchine, ameni vialetti, migliaia di rosai in fiore, graziosi edifici con decorazioni intagliate, piscina, giostre, biblioteca, banca, ufficio postale, scuola elementare e materna, negozi, teatro, sala da concerto.

Disegno proveniente da Terezín. Collezione Museo ebraico di Praga.
“Theresiendstadt” scrive Sebald, “si trasformò in un Eldorado di cartapesta, che forse riuscì persino a incantare qualcuno dei suoi abitanti o addirittura a infondergli qualche speranza...”
Fu proprio in questo luogo e in occasione dell'ispezione, che l'opera Brundibár, del compositore praghese Hans Krása, su libretto di Adolf Hoffmeister e regia di Silvia Brunello, che era stata scritta per un concorso nel 1938, fu eseguita il 23 settembre 1944. Ebbe poi ben 55 repliche fino all'aprile del 1945, al momento della liberazione. In occasione della prima, i bambini esecutori dell’opera ricevettero cibo in abbondanza e persino cioccolata.

I bambini che presero parte alla prima di Brundibár nel 1944
Degli oltre trentamila ragazzi deportati a Theresiendstadt, molti morirono di fame, stenti, malattie infettive, altri nelle camere a gas di Auschwitz, sorte toccata anche a Kràsa. Paul Aron Sandfort che, allora, aveva 13 anni e prese parte allo spettacolo con circa altri quaranta bambini della sua età, di cui fu l’unico sopravvissuto, ricorda: “Brundibár fu per noi un sogno più vivo della sofferenza quotidiana, un barlume nell’oscurità della prigionia, un barlume di speranza che ci permetteva di sperare nella libertà, malgrado i reticolati.”
Scenografia di Maurice Sendak per Brundibár, 2006.

Scelta per mascherare la realtà dei campi di sterminio, Brundibár narra la storia di Pepicek e Anika, due fanciulli orfani di padre che, per acquistare il latte per la madre ammalata, decidono di esibirsi in canzoni e danze, imitando Brundibàr, suonatore di organetto ambulante malvagio e violento, che cerca di asservirli e rubare loro i guadagni.

Solo l’ottusità dell’Obersturmbannführer non riuscì a leggere in questa favola la forza eversiva che nascondeva. Che fosse un canto di rivolta e di ribellione era ben chiaro, invece, a tutti i deportati.

Il successo di Brundibár, in effetti, fu tale che molte repliche furono organizzate clandestinamente dai prigionieri nei luoghi più disparati del campo.

Scenografia di Maurice Sendak per Brundibár, 2006.
Dalla fine della guerra a oggi, quest'opera per voce di bambini, assurta a simbolo della ferocia sconfitta dalla forza utopica dell'infanzia, ha conosciuto infinite edizioni e riletture. Come quella di Tony Kushner, che ha riscritto il libretto orginale, accompagnata dalle meravigliose scenografie di Maurice Sendak.

Sul tema di Brundibár e di Terezín consigliamo la lettura del bell'articolo di Orsola Puecher, uscito su Nazione Indiana Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano.
Adattamento di Brundibár edito nel 2003 da Michael Di Capua Books/Hyperion Books for Children.

mercoledì 26 gennaio 2011

Cesare e i Grandi lettori

Da cinque anni, la Sezione Ragazzi della Biblioteca Marazza di Borgomanero, nell’ambito delle attività di promozione della lettura, organizza un torneo dedicato ai ragazzi della scuola media. 
Si intitola “Libri in vetta. La scalata dei grandi lettori”, dura da ottobre a maggio, e consiste in un confronto fra squadre con domande e giochi imperniati sulla lettura di alcuni libri. “Dei grandi lettori”, a significare quell'età in cui non si è più bambini, ma non ancora adulti; e tuttavia, come lettori, si può già essere “grandi”.
Forse perché quest'idea di lettore è precisamente alla base della nostra collana Anni in tasca, abbiamo avuto la bella sorpresa di vedere selezionato per questo agone, edizione 2010-2011, il libro di Cesare Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita.

Fra i premi che spettano ai ragazzi per essersi impegnati nella lettura, c'è l'incontro con gli autori selezionati. Così, il 2 marzo, i 140 studenti coinvolti incontreranno Cesare Finzi nel salone d'onore della Biblioteca Marazza. La cosa molto positiva è che arriveranno a questo incontro dopo aver letto il libro e quindi preparati e in grado di avviare un dialogo significativo e approfondito con l'autore. Onore agli organizzatori per la serietà con cui hanno pensato l'evento. È mortificante arrivare a incontri dove gli insegnanti a volte si guardano in faccia, chiedendosi chi siano i perfetti sconosciuti che si ritrovano in classe. O in cui i ragazzi non sanno nulla dei libri di cui si parla e guardano irrequieti l'ora sul telefonino. A noi è capitato persino, a un  festival, di sentirci dire: “Avevamo richiesto degli altri autori, ma non erano più disponibili e ci hanno mandato voi...” Come dire, son soddisfazioni.
Il professor Cesare Finzi, cardiologo, classe 1930, è bravissimo a conversare con i bambini e i ragazzi, e da qualche anno, instancabilmente, si dedica a incontrarli in scuole e biblioteche di tutta Italia, per parlare loro della sua incredibile storia: quella di un bambino che scoprì di non poter più andare a scuola, leggendo della promulgazione delle leggi razziali sulla prima pagina del “Corriere della Sera”. Lo sentimmo raccontare questa vicenda, per la prima volta, su Radio 3, nel 2008, intervistato da Marino Sinibaldi in occasione del Giorno della Memoria, e ci dicemmo che sarebbe stato bello un libro che raccontasse in quel modo ai ragazzi quella vicenda. In quel periodo stavamo progettando, appunto, la nostra collana di autobiografie di infanzia e adolescenza. E il professor Finzi ci fece l'onore di accettare il nostro invito a parteciparvi.
Oggi, sono molte le scuole che hanno scelto questo libro, che racconta la Storia attraverso gli occhi di un bambino, per parlare ai ragazzi di cose che spesso ancora non sanno e che è inconcepibile non sapere. E per parlare anche di diritti e di doveri: temi su cui oggi, come è sotto gli occhi di tutti, c'è una confusione a dir poco allarmante.
Una bella e approfondita recensione di Il giorno che cambiò la mia vita, nel sito Mangialibri, a firma Eleonora Bellini.

martedì 25 gennaio 2011

Della grafica simbolica

Negli anni Sessanta, Warja Lavater, un'artista, grafica e illustratrice svizzera di nascita, ma cosmopolita per scelta, cominciò a pensare a una rilettura dei classici della narrativa per ragazzi restituendone la trama attraverso segni grafici simbolici, in luogo di testi e illustrazioni realistiche.
Folded Story n. 14: Hans im Glück. Basilea: Basilius Presse, 1965
La legenda e l'inizio della storia.
Si noti l'anello in corda per appendere la sequenza delle immagini
 Il primo di questi libri, William Tell, fu pubblicato nel 1962 dal MoMA di New York.
Poi, a partire dal 1963, Adrien Maeght, il celeberrimo editore d'arte parigino, ne pubblicò una collana, dedicata alle fiabe di Perrault: Il brutto anatroccolo, Biancaneve, Cappuccetto rosso, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola.
Imageries, vol. 4: Le petit chaperon rouge. Parigi: Maeght, 1965
 Il sodalizio con Maeght si è poi protratto negli anni, fino almeno al 1994. Altri esperimenti nello stesso stile sono stati pubblicati da Basilius Presse (Basilea) e da Editions Schlegl (Zurigo).

La legenda
L'inizio della storia
Si tratta di leporelli, cioè libri realizzati in un unico foglio, piegati a fisarmonica e protetti da copertine più rigide (e nel caso dei quelli pubblicati da Maeght, da un elegantissimo cofanetto in plexigas), che si aprono con una legenda di personaggi e interpreti, ciascuno dei quali è un segno grafico colorato, che permette, almeno in teoria, di decifrare la storia.


Per il resto, non sono che una lunga, affascinante, sequenza di segni e colori che rappresentano ciò che accade nella storia, fino al suo epilogo.
Melodie Tur di di. Parigi: Maeght, 1971
Noi non siamo sicuri che Warja Lavater sia riuscita nel suo intento di creare un linguaggio grafico universale semplice: il significato di molti segni e la loro corrispondenza alle vicende di protagonisti e comprimari a volte è un po' sfuggente. Ma l'efficacia dello strumento è indubitabile: la BNF propone un  percorso pedagogico a partire dal Cappuccetto rosso, e Monika Platt, dell'Università di Erfurt, propone la Biancaneve come base per la pedagogia della creatività.

Maeght propone oggi delle ristampe a prezzi quasi abbordabili. Nel mercato antiquario, con un po' di pazienza, si trovano alcuni pezzi originali, a cifre non molto più elevate.


Ci risulta che negli anni Novanta, le sei fiabe di Perrault sono diventate altrettanti film d'animazione digitale, con musiche del compositore Pierre Charvet, realizzate dall'IRCAM di Parigi. Ma non siamo riusciti a trovarne traccia nel web. Qualcuno ne sa qualcosa?

lunedì 24 gennaio 2011

Vendetta tremenda vendetta

Cominciamo con le presentazioni: Florence Parry Heide è una scrittrice americana per ragazzi di grande successo, illustrata tra gli altri anche da Edward Gorey.
Carson Ellis è conosciuta per essere la matita delle cover dei cd dei The Decemberists ma è anche una eccellente illustratrice di libri per ragazzi (e come prova, si vedano i libri di Lemony Snicket e Cynthia Rylant, per esempio).
Detto ciò, ecco a voi Dillweed's revenge. A deadly dose of magic, pubblicato nel 2010 dalla Harcourt.
Perché ci sorprende e perché ci fa tanto riflettere? Perché la storia è sinistra, un po' noir, un po' horror. Eccola.

Dillweed è un bambino che sogna di vivere mille avventure. La sua immaginazione senza limiti lo porterebbe in capo al mondo, in compagnia del fedele cane-draghetto Skorped. Ma Dillweed non si muove mai di casa.
I suoi genitori, invece, sì. Lo lasciano spesso solo, per lunghissimi viaggi, ai quali non gli è concesso di partecipare. E non appena abbandonano la casa, i domestici, Umblud e Perfidia, si trasformano nei padroni.





Come un “cenerentolo”, lo costringono a lavorare senza sosta. Dillweed però non ci sta. Da una misteriosa scatola, libera dei diabolici e spaventosi spettri che compiono senza remore la sua  vendetta. Una mortale quantità di magia, come recita il titolo.


Neanche i genitori di Dillweed sono dei santi. Tornati dal loro viaggio, se la prendono con il povero Skorped.
Il padre, con un atto di vera crudeltà, lo getta da una finestra. Dillweed scatena di nuovo i suoi demoni, ma contro i genitori. Abbandonata una casa bardata a lutto, alla fine, il bambino e il suo amico se ne vanno su una nave in crociera. E vissero felici e contenti, soprattutto una volta liberatisi della scatola magica.

A una prima lettura, un bambino che, di fatto, uccide i genitori suonerebbe inconcepibile, ma chiunque si imbatte in questo album non può fare a meno di simpatizzare con il protagonista. E di ridacchiare, anche. Come nei libri di Gorey o nell'immaginario di Tim Burton, i toni della storia vanno dal gotico al macabro, tipici della tradizione anglosassone (sull'argomento, prendetevi cinque minuti per leggere questo articolo di Paolo Mauri su Repubblica).

È un libro in cui il lettore prende atto della malvagità, e non importa a chi appartenga. Il tabù che qui si infrange è che siano i genitori portatori di questa cattiveria, e che, trasgressivamente, il piccolo Dillweed sia forte abbastanza da combatterla, anche se il ricorso alla magia mette al riparo la storia dal compiersi di un reale omicidio.

Ci chiediamo: quante copie venderebbe un libro così in Italia? Che direbbero le associazioni genitori? E i critici di letteratura per l'infanzia, fuggirebbero inorriditi?
Per noi, questo è soprattutto un album sinistramente interessante, illustrato con cura e coerenza, con un protagonista risoluto e un animaletto che chiunque vorrebbe con sé. Ci piace questa capacità degli anglosassoni di riconoscere ed avere l'apertura mentale necessaria per rendere i bambini protagonisti forti e attivi. Da Coraline a Matilde, passando anche per Alice nel paese delle meraviglie, ai più piccoli è riconosciuta la capacità di ribellarsi alle ingiustizie, anche se compiute da chi dovrebbe prendersi cura di loro.

venerdì 21 gennaio 2011

Quando il pensiero si fa parola


Nel settembre 2010, ad Anghiari, siamo stati invitati dal professor Duccio Demetrio alla Libera Università dell’Autobiografia, a presentare Gli anni in tasca, la nostra collana di autobiografie di infanzia e adolescenza. Insieme a noi c'era Luisa Mattia, non per parlare di W la libbertà, l'autobiografia che ha pubblicato con noi, ma per presentare il libro Sono contento che sono un bambino, edito da Rizzoli nel 2009, frutto di un anno di lavoro sulla scrittura autobiografica e i diari dei bambini della scuola elementare Parco di Veio di Roma.
La presentazione è stata coinvolgente, esilarante, interessantissima: chi conosce Luisa sa bene con quanta sapienza sia in grado di coinvolgere l'uditorio, che si tratti di ragazzi, bambini o adulti. Nel marzo del 2011, Luisa sarà ospite di nuovo della LUA, dal 18 al 20 marzo, per tenere un seminario sull'autobiografia dei bambini, dal titolo E tu chi sei? Perché e come condividere con i bambini l’esperienza di un diario, che si rivolge a tutti coloro che si occupano di educazione: insegnanti, bibliotecari, educatori. Il punto di vista di Luisa su scuola, bambini, scrittura, diari, ci interessa molto. Per questo le abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda. L'intervista è un po' lunga, ma le sue risposte sono da non perdere e poi c'è tutto il fine settimana per leggerle.

In Sono contento che sono un bambino, nell'introduzione, affermi che alla scuola “non si richiede il coraggio di conoscere i bambini”. Cosa intendi con questo? E cosa significa conoscere un bambino?

I bambini sono persone molto interessanti. Sono complessi, lievi e profondi al tempo stesso, seguono vie originali di comunicazione con se stessi e con il mondo, “affabulano” la vita, sono tendenzialmente anarchici. La scuola, che pure li accoglie, ha una funzione predefinita di regolarizzazione e normalizzazione. La scuola organizza prima di conoscere, stabilisce standard di apprendimento e di modalità di conoscenza predefinite sulla base di strutture di apprendimento. Un bambino o una bambina che vanno a scuola hanno il compito di entrare in questa “scenografia”, in un ambiente di apprendimento che è pre-disposto e, conseguentemente, ben poco… disposto a sopportarne la creatività e le pulsioni a praticare una conoscenza “disobbediente”. In sintesi, faccio mio un concetto di Fernando Savater, filosofo spagnolo, che definisce la scuola come il luogo in cui si fanno domande sapendo già le risposte. La scuola cerca ciò che sa già. I bambini cercano, si fanno domande, vanno alla ricerca di risposte non sempre prevedibili né previste. In questo senso, ogni bambino è incompatibile con la scolarizzazione e resta, per la scuola, uno sconosciuto. Conoscere un bambino è mettersi in gioco come persone, entrare in una dinamica che non valuta, non ha obblighi di insegnamento ma dà priorità all’incontro, alla conoscenza, alla libertà di espressione e, soprattutto, alla ricerca di un “alfabeto affettivo e comunicativo” che non può darsi a priori ma deve essere composto e riconosciuto vicendevolmente, nell’ambito di una dinamica educativa contraddistinta dalla reciprocità. In poche parole: si può entrare in contatto con un bambino se non si pretende di insegnargli qualcosa, ma, piuttosto, di imparare insieme il “chi siamo”.

Nel libro parli anche di “emozione del conoscere” relativamente all'uso del diario nel lavoro
scolastico. L'idea di autobiografia spesso fa pensare a una dimensione privata, egocentrica. Invece tu sembri collegare scoperta di sé e scoperta del mondo. È la parola scritta che può operare questo miracolo?


I bambini con i quali ho lavorato, di fronte alla proposta di scrivere un diario sono rimasti perplessi. La cautela che hanno espresso si riferiva agli adulti. Sì, proprio quelli che mettono il becco su tutto e di tutto vogliono sapere. L’esperienza che i bambini avevano della scuola non garantiva né discrezione né libertà espressiva. E nemmeno quel minimo di spazio ambientale che potesse garantire un po’ di quiete, di rapporto con se stessi. Abbiamo lavorato – uso il plurale perché è stato un impegno mio e del gruppo dei docenti – per garantire questi elementi basici, dunque: discrezione, libertà espressiva, silenzio. L’obiettivo era – e resta – importante: costruire una complicità con se stessi e con il resto della comunità con la quale si vive. E lo “spazio” è stato il quaderno-diario, un perimetro di carta, una successione di fogli sui quali – in tempi che avevamo concordato e ci eravamo impegnati a rispettare (tutti, adulti e bambini) – si scriveva. C’è stato chi ha subito scritto di sé e chi ha cominciato a raccontarsi attraverso storie inventate, piene di pappagalli parlanti e bambini che si appollaiavano sugli alberi (Calvino le avrebbe trovate…“rampanti”!). Ognuno si teneva per sé le sue pagine. Se voleva. Perché se no, se ne poteva leggere qualche riga oppure – inevitabilmente – si  parlava dei diari e dello stupore – per bambini e adulti – del “tanto da scrivere” che veniva fuori. La parola scritta è doppiamente forte, perché è capace di silenzio ma è anche in grado di fare molto rumore, sia interiormente che quando viene letta alla collettività. La parola scritta si svela e ti svela. Molti bambini si sono stupiti di quel che avevano scritto e di come lo avevano scritto. Hanno scoperto che il pensiero che si fa parola si rivela con naturale forza. Ed è bello lasciarlo andare.

In che modo l'adulto può avviare un bambino a parlare, e a scrivere, di sé senza orientare, anche inconsapevolmente, le scelte, le forme e i contenuti del suo lavoro? Detto in altro modo: in che modo un adulto può essere un interlocutore credibile per un bambino nel processo di scoperta di sé?

Questa è una vera e propria zona a rischio. Quando avviai l’esperienza dei “diari” ci fu un’insegnante che rinunciò a partecipare “perché – mi disse - so che non resisterei alla necessità di leggere e, soprattutto, di correggere i diari dei bambini. Non sono adatta a questo progetto.” Trovai quella decisione rivelatrice di un “vizio” scolastico ma anche – e quanto forte! – di una consapevolezza educativa notevole; di una onestà professionale e intellettuale che era – ed è stata – un nuovo punto di partenza per stabilire un rapporto educativo forte con i bambini e i ragazzi. Un adulto che non sia un impiccione né un irridente “correttore” è l’adulto perfetto per un’esperienza come quella dei diari. Però, l’adulto perfetto non esiste. Ci sono molti educatori imperfetti che posso e debbono pretendere da se stessi una presenza creativa, allegra, non inquisitoria né moralizzatrice. Ogni osservazione/rivelazione di un bambino che scrive il suo diario (e ne parla) è un’occasione di conoscenza, di libertà di incontro. Un modo per rovesciare il rapporto istituzionale  e trasformarlo da scuola che fa domande di cui sa in anticipo le risposte, a scuola (o famiglia) che cerca risposte e accetta di essere “interrogata” dai bambini.

Gli adulti, per ragioni anagrafiche, non attribuiscono molto peso alla memoria dei bambini né al loro desiderio, al loro diritto di possedere una propria storia. Quanto invece per i bambini queste sono importanti?

I bambini hanno una memoria di sé che gareggia in eternità con il big bang e i racconti biblici. Ogni momento della loro vita è stato una “Prima volta”, ogni esperienza una sorpresa, ogni apprendimento una scoperta. Hanno moltissimo da raccontare perché la vita vissuta è fatta di un interminabile piano-sequenza ricco di dettagli, di “minimalia” che invece per un adulto sono un “già vissuto”. I bambini parlano del loro passato al presente: vedo, sento, tocco, capisco, domando, scopro. Un adulto usa spesso un “futuro sapienziale”: vedrai, ti renderai conto, capirai… Considera i bambini “in transito”. La memoria dei bambini è fatta di narrazione di sé attraverso le cose, le azioni, i sapori e gli odori, gli incontri. Si compone come un flusso ininterrotto di eventi e spesso viene raccontata così. Gli adulti ascoltano e, altrettanto spesso, sentenziano: “Non si capisce niente. Confondi tutto”. Invece, siamo noi che confondiamo perché ci aspettiamo un racconto lineare e consequenziale che non è quasi mai prerogativa dei bambini. Anche in questa occasione, un adulto sbaglia perché pretende di usare, nella comunicazione, solo il suo alfabeto formalizzato, le sue strutture linguistiche e concettuali codificate, evitando di prendere in considerazione altre modalità. L’incontro tra adulti e bambini è spesso un confronto tra due culture che raramente porta a un equilibrio “interculturale”.

Sulla base della tua esperienza perché per un bambino è significativa la scrittura di un diario?

Qui la faccio breve: perché è lui/lei, la sua memoria, il suo pensiero e la scoperta che sentimenti ed emozioni possono avere la dignità delle “cose” – peso, forma, funzione, estetica – grazie alle parole che li definiscono.

Che rapporto hanno i bambini con la scrittura?

Dipende dalla scrittura che non è mai una sola. Il rapporto con la narrazione – sia di se stessi che di storie – può essere esaltante o mortificante. E qui sono costretta a ripetermi: scrivere è un atto di per sé liberatorio, potenzialmente sovversivo. Per assumere questa forza, questa energia dirompente, ha bisogno di assimilare regole espressive e ortografiche condivise. Una volta assimilate e usate queste regole, può – e azzarderei a dire che deve – trasgredirle. La scrittura ha bisogno, dunque , di spazi di libertà che la volontà di scolarizzazione mette in discussione. Se si racconta - di sé o di altro – in funzione di una valutazione e di un apprendimento riconosciuto (e questo avviene a scuola), la scrittura corre seri rischi di essere mortificata e di diventare modesta, conformista, sciapa. Al contrario, una scrittura liberata dalla valutazione e dalla codificazione dell’apprendimento, una scrittura che narra , può essere un’occasione di gioia e di rivelazione di sé; può diventare un’allegra necessità, una forma di incontro e di dinamica con il mondo.

Grazie, Luisa.

[Le immagini che corredano questo post sono tratte da: Jutta Gadamer, Pitz, Patz, Putz und noch mehr Bären, Verlag Heinrich Ellermann (1953)]

giovedì 20 gennaio 2011

Paolo delle Meraviglie

Le idee preconcette a proposito dei bambini, come è noto, si sprecano. Una di quelle che mi porta sull'orlo della violenza fisica è: “I bambini non hanno il senso dell'ironia.” Corollario: con loro non usate questo registro (sempre aleggia sui bambini lo spettro di qualche possibile trauma). Qualche tempo fa, su Repubblica, ho letto la notizia che, udite udite, non è vero niente: i bambini adorano l'ironia. Non solo la capiscono, ma la sanno anche usare. A quattro anni. A scoprirlo, Dio gliene renda merito, è stata un'équipe di ricercatori canadesi.
Benissimo. Bravi. Però, non vorrei passare per arrogante, io ne avevo già sentore.
Ricordo benissimo quando i miei mi portarono a teatro, da bambina, a vedere Santa Rita da Cascia, di Paolo Poli (nel 1967, a Milano, fu sospesa per oltraggio alla religione; oggi, questi rigorosi censori di fronte a spettacoli decisamente turpi non sembrano scomporsi...), con testi della bravissima Ida Omboni.



Fu una folgorazione. E l'amore che scoccò, quel pomeriggio a teatro, perdura, inossidabile, inalterato, a tutt'oggi.
Paolo Poli ha dedicato moltissime cose ai bambini e ai ragazzi. Qualche giorno fa, su questo blog avete visto un breve video del Babar di Poulenc. In ambito musicale si può ricordare anche la sua insuperata interpretazione di Pierino il lupo, di Prokofiev. A teatro, ricordo, fra le tante cose, il Pifferaio magico di Hamelin di Robert Browning, le Favole di Esopo, una infinità di poesie e filastrocche. Cantafiaba e Centostorie si intitolavano due suoi programmi Rai.



Sempre per la Rai, grandissimo successo ebbe la strenna televisiva del Natale 1976, I Tre Moschettieri di Alexandre Dumas, con scene di Lele Luzzati, suo prediletto collaboratore, e le strepitose Lucia Poli e Milena Vukotic, insieme a Marco Messeri.

Paolo Poli. Alle spalle una scenografia di Luzzati
Fra gli autori più amati da Poli, Gozzano, Palazzeschi, Landolfi, Apuleio, Perrault, scrittori che hanno sempre frequentato con naturalezza e immenso piacere i generi del fiabesco e del fantastico, il divertimento verbale, senza troppi complessi o preoccupazioni di apparire futili o sciocchi. Come è dei grandi. E Favole, appunto, si intitola uno dei più recenti spettacoli di Paolo Poli.

Il programma Ad alta voce, palinsesto terzo canale Rai, negli ultimi anni ci ha regalato due letture integrali di Paolo Poli: il Pinocchio di Collodi e Sorelle Materassi.
Memorabili. Inarrivabili. Perfette.
Viva Radio Tre. Viva Paolo Poli.

mercoledì 19 gennaio 2011

Un Ovidio postmoderno e le sue Metamorfosi

Abbiamo scoperto il Codex Seraphinianus  di Luigi Serafini nel 1981, quando uscì per i tipi di Franco Maria Ricci.

Quella che per Italo Calvino era «l'enciclopedia di un visionario», è una sorta di summa illustrata di un mondo inesistente, surreale e a suo modo utopico, del quale vengono descritte con una scrittura inventata e illustrazioni di maniacale accuratezza, in una sorta di ontologica Encyclopedie postmoderna, la zoologia, la botanica, la mineralogia, l'etnografia, la fisica e la tecnologia....

In questa descriptio orbis terrarum minus cognitarum, «l’anatomico e il meccanico si scambiano le loro morfologie, l’umano e il vegetale si completano… il vegetale si sposa al merceologico… lo zoologico al minerale, e così il cementizio e il geologico, l’araldico e il tecnologico, il selvaggio e il metropolitano, lo scritto e il vivente.» [Italo Calvino, da Castelli di sabbia]

Per Douglas Hofstadter ["Sense and Nonsense", in Metamagical Themas], «The pictures have their own internal logic, but to our eyes they are filled with utter non sequiturs.» E proprio in questa ambiguità fra realismo e surrealismo sta tutto il fascino di questo magnum opus.


Nel 2006, il PAC di Milano ripropose una mostra delle tavole del libro (dalla collezione di Franco Maria Ricci) e in quell'occasione Rizzoli lo ha ripubblicato, a un prezzo più abbordabile di quello del mercato antiquario per l'edizione ricciana (ma, d'altra parte, di qualità tecnica assai meno raffinata).

Per Natale, una persona gentile ci ha regalato le straordinarie Storie Naturali di Jules Renard, pubblicate nel 2009 da Rizzoli, illustrate da una dendrologia fantastica di Serafini. Il libro è, purtroppo, acquistabile solo a prezzo d'affezione in un'edizione limitata di 660 esemplari, intesa a celebrare i 60 anni della BUR.

Il testo di Renard è fulminante. Eccone un assaggio: "Il martin pescatore". 
Nessun pesce, oggi, ha abboccato: ma io rincaso con una rara commozione nel cuore. Mentre reggevo la canna della mia lenza, un martin pescatore è venuto a posarvisi sopra. Uccello più sfolgorante da noi non esiste. Sembrava un gran fiore azzurro in cima a un lungo stelo. La canna si piegava sotto quel peso. Io non respiravo neppure, fiero d'essere scambiato per un albero da un martin pescatore. E quando è volato via, non l'ha fatto, vi dico, per paura, ma perché ha creduto di passare, semplicemente, da un ramo a un altro ramo.
La traduzione, impeccabile, è di Aldo Gabrielli.

Qui, nel lavoro di Serafini sono evidenti i riferimenti alla Botanica Parallela di Leo Lionni e alla Nonsense Botany di Edward Lear. Ma qui la dialettica fra senso e nonsenso letteralmente esplode grazie al'artificio cartotecnico degli specimen botanici, inseriti a decine in apposite tasche.


Fra le altre opere di Luigi Serafini segnaliamo la divertente Pulcinellopedia (Longanesi 1983), ormai reperibile solo nel mercato antiquario a prezzi sbalorditivi. (La nostra copia non la troviamo più: non è che c'è in giro un bibliotecario volontario disposto a catalogare i nostri libri in cambio di un piatto di lenticchie a pranzo e cena?)