venerdì 31 gennaio 2014

La misura di tutte le cose

Nell'autunno del 1994, Elizabeth Lortic, de Les Tois Ourses, inviò i primi libri di Katsumi Komagata a Bruno Munari, chiedendogli un'opinione. Munari rispose così:

Come una cosa si trasforma in un'altra
Verosimilmente, tutti i bambini del mondo, dopo aver giocato un po' con un giocattolo, finiscono per smontarlo, per vedere come è stato fatto. Allora, gli adulti dicono che il bambino «ha rotto» il giocattolo. Ma non è vero: i bambino lo «apre» per vedere che cosa c'è dentro, come fanno gli adulti, quando «rompono» un'arancia per mangiarla. Nella maggior parte dei casi, non è possibile costruire qualcosa con i pezzi di un giocattolo rotto. A volte è possibile farlo solo con pezzi disparati. Allora, perché non inventare degli oggetti visuali (si è detto un giorno Katsumi Komagata) con pezzi disparati che si possano combinare in modi diversi? Basterà che questi pezzi disparati siano tutti uguali, cioè di dimensioni modulari, in modo da poterli assemblare. 



In Oriente, esiste un gioco antichissimo che ha la caratteristica di poter essere composto in una gamma infinita di possibilità: è il tangram. Ma (può darsi abbia pensato Katsumi Komagata) proviamo a giocare, oltre che con i colori, con le forme. Bisogna trovare dei moduli insoliti: un triangolo con un lato curvo, per esempio. In quante forme si può combinare. Vediamo un po'.
Ecco allora una serie di giochi in nero e a colori proposti da Katsumi e adatti anche ai più piccoli.
Gli stessi bambini saranno stupiti da questo cambiamento, molto più di quanto lo siano da certe fiabe che raccontano di un principe innamorato di una bella principessa: ci sono giochi per tutte le età.


Nel 1994, Komagata non era ancora sbarcato in Europa. I suoi primi libri saranno editi in Francia, da Les Trois Ourses nel 1998. I suoi esordi, Komagata li racconta così:


Quando mia figlia ha compiuto tre mesi, ha cominciato a osservare le cose. Non ero sicuro che potesse vedere, ma i suoi occhi si muovevano da sinistra a destra, poi da destra a sinistra. Cominciava anche a guardarmi, come se si domandasse chi fossi. Il padre è meno vicino al bambino della madre, perché la madre e il bambino hanno vissuto insieme per i nove mesi prima della nascita. Così ho pensato a un modo per dire a quella bambina che ero suo padre, e ho cominciato a  disegnare delle carte per attirare la sua attenzione [queste carte sono poi diventate la serie "Little Eyes", pubblicata da One Stroke a partire dal 1990 e che vedete nelle pagine del catalogo qui fotografate)



Ho disegnato molte carte, più di cento, per mostrarle alla mia bambina. All'inizio, volevo solo muoverle davanti ai suoi occhi per essere sicuro che ci vedesse. Poi ho capito che erano un mezzo per comunicare con la bambina, anche se non capiva le parole, e che la cosa più importante era condividere qualcosa insieme e divertirsi. Questo è stato il primo passo del nostro dialogo: quello che ci ha permesso di fare conoscenza un po' alla volta.



Ecco, con tutta questa semplicità e purezza sono nati i libri di Katsumi Komagata. Libri importantissimi. Così importanti che spesso ce ne dimentichiamo, come ci dimentichiamo dei libri di Bruno Munari. Ce ne possiamo dimenticare perché sono un po' come la musica di Mozart: qualcosa che abbiamo già dentro, anche se non siamo consapevoli di avercela; e che quando ci viene rivelata magicamente, poeticamente, ci sembra ci appartenga da sempre.


Proprio per questo è particolarmente importante che, a un certo punto, l'opera di questi artisti venga riepilogata, catalogata, esposta ai nostri occhi nella sua interezza, per far sì che ci si possa ricordare, per mai più dimenticare, l'entità del debito che abbiamo nei loro confronti. Come esseri umani, autori, illustratori, editori, bibliotecari, insegnanti, genitori ed ex bambini.


La consapevolezza di questo debito è fondamentale, per non correre il rischio di convincersi di "conoscere e possedere già" l'opera di questi autori, di darla per scontata, di relegarla fra le verità acquisite e le certezze consolidate, quando il pensiero di Komagata, come anche quello di Munari e di Mozart, è un pensiero genuinamente rivoluzionario e, proprio per questo, poco avvezzo a muoversi sul rassicurante terreno delle nostra pretese verità e certezze.


Proprio per questo Les Livres de... Katsumi Komagata, pubblicato nel novembre del 2013 da Les Trois Ourses è un libro essenziale. Essenziale quanto quella barra di platino iridio conservata a Sèvres, al Bureau Internationale des Poids et des Mesures che, dal 1899 ci dà la misura di tutte le cose.


Nel 2008, in un numero speciale della rivista "Le Mook": Quand les artistes créent pour les enfants. Des objets livres pour imaginer, dedicato ai primi vent'anni di attività di Les Trois Ourses, Katsumi Komagata ha scritto:


Recentemente, mia figlia mi ha domandato se avrei continuato a creare libri per bambini così pieni di sorprese e di cose strane. Le ho risposto: «Lo farò.»

E noi aspettiamo i suoi libri, ogni volta con l'ansia e l'aspettativa di quando eravamo bambini.


I precedenti post della rubrica "Leggere l'illustrazione" sono stati dedicati a:

mercoledì 29 gennaio 2014

Pomeriggio in una scuola media

[di Gioia Marchegiani]

Questa volta sono arrivata mezz'ora prima dell'orario di apertura. La volta scorsa, infatti, arrivare con calma ha significato trovare ben 50 nomi davanti al mio, e rientrare a casa con niente di fatto, con gran delusione di Alice che fremeva all'idea di sapere.
Ma sapere cosa, poi, figlia mia!?
Quanto amor proprio. E quanta fragilità in questi ragazzi. A cui evidentemente ancora non siamo riusciti a far capire che il valore di quello che si è, a scuola e fuori, non lo può stabilire un giudizio né, tanto meno, un numero.

Insomma, arrivata davanti all'ingresso della scuola, non ero certamente la prima. Già un bel gruppetto se ne stava lì, bello compatto davanti alla vetrata. Mi sono immaginata la scena vista dall'interno, dove tre bidelli ci guardavano col sorriso di chi ha la chiave della gabbia. Anche se, in realtà, in gabbia ci stavano loro.

E allora che ci stavamo a fare noi, lì fuori, a prenderci contro per entrare? In attesa, come domatori pronti a entrare nella gabbia dei leoni o forse come adolescenti che smaniano per entrare al concerto del loro cantante preferito.
Raggiungere la vetrata dove erano esposti i nomi dei docenti e le classi dove li avremmo trovati, è stata un'impresa. Ho giurato di fare presto, di disturbare solo per il tempo di una foto col cellulare (evviva la tecnologia!), per poi tornare da brava al mio posto che, prudentemente, avevo chiesto a un complice di tenere occupato con la promessa di condividere con lui la foto della lista.

Tornata a posto, ho preso un foglietto e impugnato la penna. Avremo anche i cellulari, ma i cari, vecchi sistemi sono sempre i migliori. Anche perché, vuoi mettere quanto sia più pericolosa una penna, rispetto a un touch screen, se usata come arma!?
In quel momento, mi sono guardata intorno e mi sono accorta che tutti avevano avuto la mia stessa idea, ma soprattutto ho capito per quale motivo una penna serviva davvero: semplicemente per scrivere il proprio nome sulla lista dei colloqui Quindi, ognuno se la teneva ben stretta, a mo' di arma contundente... E così, naturalmente, ho fatto anche io.

Alle 16 e 32, la porta si è aperta e un'onda anomala di teste, cappotti e penne si è riversata nell'androne. Giusto il tempo di precipitare dentro, come buttati da una mareggiata.
In quel momento mi sono sentita felice, e davvero l'impressione è stata quella di essere un'adolescente che è riuscita a entrare al concerto del suo cantante preferito.
Peccato che lì ad aspettarmi ci fossero solo bidelli inferociti, scale da salire di corsa e soprattutto una ansiogena ricerca dell'aula giusta...

Sì, perché le aule non sono disposte in ordine alfabetico e numerico. Che senso avrebbe? Quindi, gran avanti e indietro generale alla ricerca della 3H, dove aspetta matematica, della 2N, dove c'è geografia, della 3D, dove avrebbe dovuto esserci italiano, ma che poi, per mia fortuna, all'ultimo momento è finito in 3G, al piano terra...

Per mia fortuna perché sono stata una delle prime ad accorgermene e, naturalmente fino a che non ho piazzato il mio cognome al terzo posto della lista, mi son ben guardata dal dirlo a qualcuno. E solo dopo, con falsa generosità, ho elargito la notizia a chi chiedeva informazioni.

Nel giro di cinque minuti ho piazzato le mie firme. Dopo non è rimasto che attendere.

Nel frattempo, i corridoi si erano riempiti. Così, fuori dalle classi i genitori in attesa si sono messi a parlare, a chattare e qualcuno, come sempre, anche a litigare.
La volta scorsa, in previsione dell'attesa, mi ero portata un libro. Ma poi non l'ho neppure aperto, eppure per quante persone avevo davanti probabilmente lo avrei finito. Ma leggere in un angolo di corridoio, con poca luce, seduta su una vecchia cattedra per due o tre ore, senza la certezza di farcela a incontrare il leone, ops! scusate l'insegnante, non avrebbe fatto onore allo scrittore. Questa volta il libro lo avevo dimenticato per la fretta di uscire in tempo e, ahimè, avevo scordato anche il mio sketch book.

In genere, vado di mattina ai colloqui con i docenti, uno dei tanti vantaggi del lavoro che svolgo nel mio studio, a casa.
Ma questa volta mi sono detta: “Vediamo come funzionano gl incontri pomeridiani. Vediamo se sono fattibili.” Quella dei colloqui è una realtà che appartiene al mondo della scuola: ci sono passata io, da bambina, ci si trova ora Alice, e poi ci passerà Chiara. Tutto sembra essere rimasto uguale, come se non ci fossero stati cambiamenti in questi anni. Invece c'è ne sono stati, eccome.

Intanto, se penso ai miei genitori o a quelli dei miei compagni, questa necessità di incontrare i professori non era sentita così come lo è oggi. Si aveva più stima e fiducia e considerazione per la categoria a cui era affidata la formazione dei propri figli. E poi si aveva la sensazione, a volte era anche solo una sensazione, che tutto fosse sotto controllo: a casa e a scuola.

Fermo restando che i bravi insegnanti, così come quelli cattivi, ci sono sempre stati, oggi mi sembra ci siano ragioni diverse per cui si sceglie di insegnare. In certi casi, si ha la sensazione che gli insegnanti per primi abbiano perso convinzione, rispetto al valore del proprio compito. E che ognuno proceda a modo suo, con il suo metodo, frutto spesso di un adeguamento da una parte a un sistema che non sostiene, a una società che non riconosce il valore del buon operare, dall'altro al livello della classe e degli alunni che la compongono.

E la stessa cosa accade nelle famiglie: genitori e ragazzi, fuori e dentro la scuola, una volta capito come funziona, si adeguano, in base a quello che viene richiesto, spesso con poca passione e poche motivazioni all'idea di impegnarsi, di spendersi.

Eppure stando a quanto questi colloqui sono frequentati, sembra che noi genitori ci teniamo molto che i nostri figli facciano 'bella figura'. Ma il come e il perché, evidentemente, cambiano. A volte ho l'impressione che tutto si riduca a una ostentazione, a una corsa a essere i primi: primi a scuola, nello sport... per qualcuno va bene anche solo primi in quel che si ha, come un cellulare di ultimissima generazione. È una specie di corsa ad accumulare punti di vantaggio per far fronte a un futuro sentito come incerto e precario.

E una corsa, infatti, è stata anche quella che abbiamo dovuto fare il giorno dei colloqui, per aggiudicarci il posto più vicino all'ingresso, il posto più in cima alla lista dei nomi.
Per poi ritrovarci lì, in attesa. Singoli individui senza un senso vero di collettività. Senza una reale condivisione di percorso e di quello spazio-casa che è la scuola (o che, personalmente, credo, potrebbe essere).

A parte i consueti problemi di incuria e fatiscenza di quei corridoi, su cui come fiori spiccano i lavori di arte dei ragazzi, e a parte il mio temperamento evidentemente schivo, mi sono chiesta: se questi siamo noi adulti, come saranno i nostri ragazzi?

Probabilmente non avranno il problema dei colloqui con i docenti, perché anche quelli si faranno online, come già si fa per le pagelle, con tanti problemi in meno per tutti. Niente corse. Niente sorrisi e fredde strette di mano. Ma, certo, senza neppure quella sensazione istantanea di sentirsi come adolescenti che entrano al concerto del loro cantante preferito...

Ho scritto questo post dopo aver riguardato gli schizzi che, il giorno dei colloqui, mentre aspettavo il mio turno, ho tracciato col dito indice sullo schermo del mio smartphone, ormai vecchio, ma che mi è stato utilissimo.



lunedì 27 gennaio 2014

Come nelle ballate

[di Francesca Zoboli]

Qualche tempo fa, sono andata a vedere Murmure des murs spettacolo di grande fascino e raffinatezza, con meravigliose invenzioni nelle scenografie e nei costumi. In parte me lo aspettavo, poiché si tratta della regia di Victoria Thierrée-Chaplin, e chi di voi ha visto i suoi spettacoli ne sa qualcosa.
Questa volta ciò che più  mi ha colpito è stata la struttura narrativa, diversa dai precedenti spettacoli,  che in genere procedevano per 'stanze', con temi diversi e non collegati.



Qui, infatti, c’è una storia che viene raccontata utilizzando degli elementi scenografici e dei personaggi che continuano a ritornare e a ripetersi però scompaginando schemi logici di comprensione basati su tempo e luogo, introducendo in ogni nuova situazione varianti che ne modificano il significato.
Il racconto si svolge tutto attraverso immagini e senza parole.



Inizia da una situazione molto comune, dove una ragazza  (la brava protagonista, Aurelia Thierrée-Chaplin) è alle prese con un trasloco, fra scatoloni, plastiche e oggetti vari inizia a farsi strada un clima misterioso e sospeso: scatole che si muovono da sole, un fantasma/animalone in pluriball, uomini senza volto vestiti di polvere.


Tutto si svolge tra interni dove sono protagonisti muri scrostati, le cui vecchie tappezzerie sanno raccontare storie; esterni di case che ricordano Magritte; finestre illuminate da cui entrano ed escono i personaggi a cui si sono aggiunti nel frattempo un ballerino; un traslocatore/acrobata; uno strano essere con testa da uccello che sembra uscito da un dipinto di Max Ernst.
Di scena in scena, la storia si arricchisce di suggestioni nuove e destabilizzanti, puntando in una direzione decisamente onirica e fiabesca.

Appena a casa, ho visto sul tavolo il bellissimo libro di Blexbolex Ballata, edito da Orecchio Acerbo, e subito il collegamento con lo spettacolo è scattato.

Il meccanismo narrativo mi è sembrato identico e condotto con lo stesso ritmo. Un racconto basato su immagini molto semplici, accompagnate da una didascalia che le definisce in una sola parola, come negli abecedari infantili, è basato sulla ripetizione di alcuni elementi base: la casa, la scuola, la strada, lo sconosciuto, il tragitto, il ponte, la foresta, i briganti.

In ogni capitolo, a queste “figure” se ne aggiungono altre, (la strega, la tempesta, l’ingorgo, il labirinto, le ombre, il presagio ecc); cambiano le posizioni e le relazioni tra loro e, come in un mazzo di tarocchi, anche i significati, giungendo a una complicazione narrativa quasi caotica che spinge il lettore a tornare indietro, a ricostruire percorsi e biforcazioni che portano la storia ad aprirsi a ventaglio con un ritmo sempre più incalzante.




La grande sorpresa è quando le didascalie di accompagnamento spariscono, sostituite da uno spazio vuoto fra la virgola e il punto, che invita il lettore a scriverle, cosa che mi ha ricordato la sensazione che si prova da piccoli, quando si impara ad andare in bicicletta e improvvisamente non ci sono più le rotelline di sostegno.




In questo modo, il lettore ha la possibilità di costruirsi i propri personali percorsi mentali. Così, la storia contenuta in questo libro ognuno di noi l’avrà in mente un po’ diversa dagli altri. Come nelle ballate, appunto.



venerdì 24 gennaio 2014

In punta di matita

Da quando mi ha preso la scimmia della grafite, sono diventato molto curioso di matite: non capisco come si usano e mi balocco con l'idea che la soluzione a questa mia incapacità stia nascosta da qualche parte, in una matita speciale, in una carta speciale, fatte apposta per me che, come per magia, cancelleranno completamente il senso di estraneità che provo quando tento di disegnare con la matita. Così, ficcando mani rapaci negli astucci e nelle scatole degli illustratori che frequento e bighellonando in rete, mi sono fatto una cultura. Che, proprio per essere cultura, ha alcuni risvolti sorprendenti. 
Per esempio, qualche giorno fa, il sito de la Repubblica ha pubblicato una galleria di immagini pomposamente battezzata "Le venti pubblicità più geniali di sempre". Fra queste, l'immagine che vedete qui sopra: vere punti di matita; mica roba manipolata con Photoshop.
Sono probabilmente milioni gli artisti che hanno creato opere, anche sublimi, con l'ausilio del più semplice, economico e diffuso strumento di disegno. Molti di meno quelli che hanno rovesciato la prospettiva e hanno creato opere d'arte in punta di matita. 


Diem Chau è un'artista statunitense di origini vietnamite, arrivata a Seattle nel 1986 come rifugiata. Ha una evidente passione per i lavori di dettaglio: minuscoli lettini fabbricati con stuzzicadenti su cui poggiano materassi e cuscini di porcellana o piatti in ceramica con decorazioni in filo di seta; ma soprattutto, matite e pastelli a cera scolpiti.




Poi, continuando a bighellonare, ho trovato con non poca sorpresa altri scultori in grafite. Come Dalton Ghetti, che dichiara di usare solo le matite che trova per la strada (e pensare che io al massimo trovo le monetine da un centesimo).

Dalton Ghetti, Alphabet.

Dalton Ghetti, The tiniest hammer.
O come l'ungherese Cercahegyzo.




Non sono sicuro che questa sia vera arte. E sotto certi aspetti mi irrita un po' il virtuosismo da ergastolano che ricostruisce il Duomo di Milano con i fiammiferi. Ma sotto altri aspetti mi affascina l'idea di cambiare completamente il punto di vista e fare dello strumento l'oggetto. Voi cosa ne pensate?

Dalton Ghetti al lavoro.

mercoledì 22 gennaio 2014

Dopo Guadalajara

[di Valentina Colombo]

Tra la fine di novembre e i primi di dicembre ho avuto la felice opportunità di assistere alla Fiera del libro di Guadalajara, in Messico. Una occasione per la quale devo ringraziare la Fiera stessa, in particolare Rubén Padilla, che si è occupato di sistemare tutte le scartoffie necessarie; i Topi, per avermi permesso di andare; Filustra e l'agenzia spagnola Pencil, che mi hanno invitato a una sessione di discussione con illustratori messicani sul tema del lavoro dell'illustratore che è stata un bel momento di scambio e riflessione.

L'ingresso della FIL dal lato del padiglione internazionale
Lo stand del gruppo editoriale Santillana
La FIL di Guadalajara è aperta al pubblico quotidianamente. Ed è una fiera di lunga durata, circa 10 giorni, due fine settimana inclusi e anche una apertura notturna, fino alle 23, che sembra sia frequentatissima (dicono, ma io non ho assistito all'invasione; mi è bastato vedere cosa succede il sabato pomeriggio).

Editori messicani e di tutto il Sud America, qualche americano, molti spagnoli, ovviamente, vista l'appartenenza alla stessa area linguistica. Moltissimi illustratori, agenti e visitatori da ogni parte del mondo. Stand stracolmi di libri, sia gestiti direttamente da editori sia da librerie e distributori, anche se in misura minore. Tanti gli stand condivisi tra più case editrici. Pochi gli stand che ospitano, ad esempio, prodotti cartotecnici o paralleli come giochi e gadget. Anche se, in questo caso, devo dire che lo stand di pubblicazioni cristiane che vende i rimasugli delle ostie sconsacrate, pagabili con carta di credito, mi ha un po' spiazzato; così come lo spazio-laboratorio della Kinder (sì, quella del cioccolato), dove i bambini potevano fare il loro ovetto; oppure quello di pubblicazioni esoteriche con incensi, cimeli e amuleti di varia natura, gioiellini e gli immancabili microlibri.

Al di là di queste piccole invasioni di campo (niente a che vedere con i criticatissimi - a ragione- prosciutti di Torino) è una fiera totalmente incentrata sul libro, con pochi ebook e device, molte attività, presentazioni, conferenze; un foro illustratori attivissimo e un programma denso di incontri e convegni.

Allo stand di Océano trovo Velluto, alias Terciopelo



Quel che mi sono portata a casa da questa fiera è stata la chiara percezione della presenza di una forte rete. Dato che la Spagna fatica a uscire da una crisi che sta mettendo a durissima prova gli editori, questi hanno cercato una via di fuga nel mercato in lingua spagnola dell'America Latina. Questo ha avuto due conseguenze molto interessanti. La prima è che si è creata una strettissima alleanza fra editori spagnoli ed editori sudamericani. La seconda, è che gli editori spagnoli, e parlo degli indipendenti, stanno collaborando.

Stand di Océano, L'ora blu - La hora azul
Il principio è abbastanza semplice. Se la crisi sta mettendo in ginocchio tutti, è un problema di tutti, che non è sufficiente affrontare in una logica individualista di strategia editoriale. Certamente, un editore, oggi come oggi, deve per forza fare "i conti con i conti". Ma la prospettiva collettiva e, anzi, per usare una parola che mi piace di più, comune, degli editori stranieri mi ha molto colpito.
Non si tratta di trovare solamente soluzioni semplici come quella di condividere gli spazi dello stand (sappiamo tutti che le fiere costano). Si tratta di condividere esperienze, saperi, conoscenze. Cose molto, molto preziose per i singoli business. Si tratta di vedere il libro di un editore che espone di fianco a te, ma che magari non conosci, e suggerirgli di parlare con Tizio o Caio, o di presentarlo al concorso Sempronio. Si tratta di concepire la filiera editoriale come un sistema vitale in cui ogni singolo pezzo favorisce il buon funzionamento dell'organismo intero.
In una bella chiacchierata con Ángel e Sandra, che hanno creato l'agenzia per illustratori Pencil, abbiamo a lungo parlato proprio di questo. Di come, cioè, i ruoli nella filiera stiano diventando sempre più liquidi, e di come sia importante allargare i propri orizzonti di lavoro, per esempio, verso una maggiore comunicazione, al di là dei ruoli dei singoli; un po' come stiamo facendo noi con questo blog, in cui non facciamo mera promozione del catalogo e delle attività che lo riguardano, ma cerchiamo di dare una visione più ampia del lavoro editoriale nel senso più generale del termine, cioè di lavoro culturale, che non riguarda solo noi, ma tutto quello che ci sta intorno, creando continue occasioni di confronto e scambio. O, appunto, come fa Pencil, creando momenti di formazione degli illustratori e promuovendo il loro lavoro all'estero, non solo in quanto agenti, ma in un'ottica più allargata di diffusione della cultura dell'ilustrazione (come, appunto, in Filustra).

Poco prima dell'inizio della conferenza di Filustra "Más allá de las fronteras"

Abbiamo parlato di come un editore può far da agente a un illustratore che ha lavorato con lui, presentandogli editori stranieri; di come un agente può fare da collante fra editori di paesi diversi; di come gli illustratori possano scambiarsi opinioni, soluzioni su problematiche comuni, informazioni utili, collaborando tra loro e organizzandosi per aiutarsi e sostenersi a vicenda. Si è parlato insomma di un lavoro di collaborazione, ascolto delle esigenze degli altri, di condivisione.

Stand di Océano, Ninna nanna per una pecorella - Canción de cun para una ovejita
Se Facebook ci ha portato, negli ultimi dieci anni, a condividere contenuti in maniera quasi automatica, forse è il momento di applicare questa logica, in modo critico e costruttivo, anche all'interno di una catena produttiva come quella libraria che, invece, si è sempre definita attraverso ruoli precisi, spazi chiusi, inattivabili collegamenti.
In una logica di bene pubblico, che in Italia manca in maniera costitutiva (mia opinione personale, lo so, e continuerò a ripeterlo), aiutare il mio cosiddetto "concorrente", parlarci, condividere dubbi e perplessità, riflettere sui punti deboli e trovare soluzioni, aiuta anche me. Se un sistema così come lo conosciamo non funziona più, è il momento di ridisegnare la sua geografia.
Spesso si ragiona in termini di fette di mercato, di domanda-offerta e di concorrenza.
Io, in Messico, ho visto affacciarsi, e mi auguro che la cosa abbia uno sviluppo, una mentalità diversa, che si basa da una parte su una forte presa di coscienza dell'identità di ogni singolo editore, e dall'altra sul senso di appartenenza allo stesso orizzonte di lavoro e scambio. Ognuno fa e continuerà a fare i suoi libri come meglio crede; farà le cose che gli piacciono e piacciono al suo pubblico. Ogni editore continuerà a essere se stesso, ma insieme agli altri, con l'obiettivo di innalzare il livello qualitativo del prodotto-libro che si sta offrendo al pubblico. Certamente non è la soluzione alla crisi editoriale, che deve passare anche da una seria riflessione politica e che deve portare ad atti politici forti. Però questa costante osmosi di notizie, questo circolare di conoscenze, questo riflettere insieme, seduti a un tavolo, dopo otto ore di fiera, sulle possibilità di abbattere costi, creare nuove reti tra editori, librai e distributori; confrontarsi su problematiche concrete, sulle relazioni con le istituzioni e sulle loro risposte; promuovere la lettura con festival e incontri tematici, organizzati o patrocinati dagli editori stessi; questo dibattito così spontaneo, vivo, questo ribollire di idee che vanno e vengono, è l'atteggiamento giusto. Mai come a Guadalajara il proverbio "chi fa da sé fa per tre" mi sembrato più sbagliato.

lunedì 20 gennaio 2014

Un artigiano che frammenta il tempo

Il castello, 1977
Per anni, l'immagine che vedete qui accanto ha vegliato sui miei sonni, dalla parete sopra il mio letto di ragazzo. A tenerle buona compagnia, il Grande cane in piazza in una giornata di sole (1969) di Dino Buzzati, che - fra parentesi - era anche estimatore e collezionista delle opere di questa autrice (e prima di questo albero, c'era una grande Mappa della Luna, ma di questo parleremo fra qualche giorno).

Ora, quella casa non è più della mia famiglia, ma questa incisione mi accoglie nell'ingresso della casa di campagna.

Non è trascorso molto tempo da quando Giovanna, una domenica sera, è tornata a casa con un sorriso sornione. Senza quasi neanche salutare, ha estratto dalla borsa un libro con un'elegante copertina in carta Ingres Fabriano color celeste e un titolo in Bodoni Bauer: Giovanni Testori, Itinerario di Federica Galli. Milano: Compagnia del disegno, 1980 (edizione in mille esemplari; il nostro n. 112)

Io di Federica Galli non sapevo quasi nulla e poco avevo visto. Ricordavo una serie di incisioni, o forse un libro, dedicate agli alberi monumentali italiani, ma non mi era mai passato per la testa di fare delle ricerche. Mi accontentavo del piacere che mi dava la familiarità con quell'immagine, così pacata e precisa, guardata mille e mille e ancora mille volte con affetto e gratitudine.

Così, ho perso un sacco di tempo. Per fortuna, su Federica Galli si trova moltissima documentazione, molta della quale messa a disposizione dalla Fondazione Federica Galli, che ha sede in un bel palazzo milanese sulla cerchia dei bastioni, fra Porta Monforte e Porta Venezia. Il sito della Fondazione merita una visita attenta.

Che cosa ci potete scoprire?  Forse solo una cosa molto semplice: la natura del segno. Un segno, quello di Federica Galli, minuto, sottilissimo, quasi fragile. Ma allo stesso tempo denso e potente.

Giudecca: la Corte Grande, 1986

Un segno giusto ed esatto, quasi ingegneristico, che si spezza senza sfumarsi. Un segno che riesce a essere poetico senza essere vago [grazie, Julia Racsko, NdA].

Cascina abbandonata, 1973

Un segno umile e regale, al quale interessa solo la verità. Che cerca una verità da spiegare, che la frammenta e la ricompone su una lastra, per poi raccontarla sul foglio.

La rete delle olive, 1985

Ecco, quando penso al mio disegnare penso a questo segno. Non che mi ci avvicini: «neanche di striscio,» ci dicevamo da ragazzini, quando la biglia finiva lontano dalla buca. Però ci penso. E ci penso perché più guardo disegni, più mi pare che il disegnatore - disegnatore, non disegnante - si riveli essere alla fin fine un abile orologiaio: un artigiano che frammenta il tempo e lo spazio e li ricompone attraverso incastri minuti e matematicamente precisi. Per restituirceli quasi intatti, renderli portabili, permetterci di tenerli accanto al letto a vegliare sul nostro sonno e sulla nostra sveglia.

San Simpliciano senza luna, 1989
E neppure il disegno più istintivo e gestuale si sottrae a questa regola, così come alla regola della frammentazione e ricomposizione del tempo soggiace anche il più semplice degli orologi: lo gnomone della meridiana; la clessidra; l'orologio ad acqua. Poi, vabbe', non è che io sia maestro di metafore. Ce ne sono di più efficaci e poetiche della mia.

Rio del Piombo, 1984
Per esempio, Testori nel libro scrive: Per la Galli questo mezzo [l'incisione], anche volendo ridurci alla concretezza estrema, è musica; linda, sottilissima, acuta, quasi d'argento; ancorché tocchi o traversi spessissimo l'oro, il buio delle notti ovvero il biancore dei ghiacci. Il suo segno viene inconfutabilmente da uno strumento che è della musica, per tornare altrettanto inconfutabilmente alla musica. Musica, voglio dire, come gocce alterne di rugiada: quelle che così di sovente ci sembra di sentir cadere giù dalle foglie dei suoi castani, dei suoi platani, delle sue betulle; musica come il «tema e fuga», impercettibilissimo ma infinito, che fa sciogliere e scricchiolare le sue nevi ai raggi del sole; ovvero il loro bloccarsi in un «andante maestoso» quasi da statuto morale, al gelo della sopravveniente notte. Salirà, allora, da dietro i monti o da dietro le cime dei pini, la luna?

Ma, in fondo, forse stiamo dicendo quasi la stessa cosa.


[Tutte le immagini a corredo dell'articolo sono state scaricate dal sito della Fondazione Federica Galli, titolare del relativo copyright.]
Lanca gelata, 1981