venerdì 29 novembre 2013

Avventure /12: Le illustrazioni nascono anche così

La pineta di Torre Astura, dove si svolge l'antefatto di questa avventura.


SR: Agosto 2013: una mattina Paolo, a bordo della "Bomba al Metano", passa all'alba a prendere prima Daniela e poi me. Destinazione Torre Astura, per una tranquilla mattinata al mare. E di cosa volete che parlino due illustratori e un editore? Avevo visto nel blog di Daniela delle illustrazioni ad acrilico: montagne. E proprio in quel periodo anch'io mi ero messo a disegnare montagne, però a matita. Quelle di Daniela mi sembrava avessero una particolare affinità al mio modo di utilizzare il colore. E per un po' parliamo di quello.
Poi confesso che mi sarebbe piaciuto partecipare a Ilustrarte, ma non avevo il minimo appiglio, uno scarabocchio su un fazzoletto, un’idea, niente di niente. Paolo tira fuori dallo zaino Il vello d’oro di Robert Graves, legge un brano e mi propone di partire da quello. Anche Daniela è incuriosita; e sembra abbia lo stesso problema con Ilustrarte. E la scadenza era abbastanza prossima. Così, Paolo, che ha proprio la mania di voler far lavorare gli illustratori a coppie o in gruppo, se ne esce con la fatidica frase.

La spiaggia non era proprio impeccabile, ma trovatelo voi
un posto deserto il 20 agosto, alle porte di Roma

DT: Sì, ce ne stavamo beatamente a farci bruciare dal sole su una spiaggia quasi deserta, ignari del nostro destino e, già prima di mezzogiorno eravamo fermamente decisi a realizzare delle illustrazioni a quattro mani per Ilustrarte. Il tempo a disposizione era pochissimo ed entrambi non avevamo esperienze di lavoro collaborativo. Ma forse è stata proprio la curiosità di vedere cosa sarebbe potuto venirne fuori che ci ha spronati! All'inizio abbiamo pensato di dedicarci proprio al libro di Graves (che Paolo mi ha gentilmente prestato e forse non rivedrà più!): già solo il prologo è una miniera di immagini incredibili, ricche e suggestive. Ma non riuscivamo a concludere, a prendere il via. Ci sembrava troppo superficiale mettersi al lavoro su un testo del genere così in fretta, senza avere qualche settimana in più per fare un’adeguata ricerca.
Così, ci siamo aggrappati a quelle montagne che, del tutto casualmente, sembrava ci potessero unire.  Dovevamo comunque capire come integrarci con la tecnica, quale utilizzare, da cosa partire, come fare.

La montagna di Simone; e quella di Daniela (ora nella collezione Topipittori).

SR: Abbiamo iniziato senza un’idea forte. Purtroppo - o per fortuna - non sapevamo di preciso cosa volevamo raccontare. L'approccio iniziale non è stato facile: la prima volta che ci siamo incontrati non abbiamo concluso molto. Daniela ha disegnato una montagna a matita, io ho disegnato il cielo e poi ci siamo inventati un lago ghiacciato dove far pattinare una piccola folla di personaggi realizzati da entrambi: ballerini, strani ibridi, animali e altro. Ma la prova non ci ha gratificato molto...

Lavori in corso sulla prima tavola.
Pregasi notare a che tipo di pornografie
si dedica Simone, invece di lavorare seriamente.
DT: A fine giornata ci siamo guardati e abbiamo capito (stremati!) che non poteva assolutamente andare: il lavoro  non era omogeneo, troppo confuso, improvvisato, ma anche la tecnica non ci dava soddisfazione. Entrambi siamo abituati a lavorare da soli, io forse più di Simone. Iniziare insieme, per di più senza un’idea precisa, ci ha gettati nella confusione.
Abbiamo lasciato decantare un po’ di sensazioni, fino a che abbiamo capito che era meglio organizzare il lavoro in maniera più sistematica, con più calma, ognuno per conto proprio, dandoci delle regole e delle direttive generali per impostare le tre illustrazioni.

SR: Così ci siamo dati delle regole: sentirci liberi di intervenire sul lavoro dell'altro e di obiettare le scelte cromatiche ed espressive; e dirci in maniera molto diretta qualunque cosa ci venisse in mente.
La seconda volta ci siamo solo sentiti via Skype. Abbiamo deciso il formato delle illustrazioni e il supporto (Fedrigoni Quadrex 500g). Abbiamo anche deciso di occuparci separatamente (ognuno a casa propria) di diversi elementi compositivi e intervenendo successivamente sul lavoro dell'altro, convinti che questo ci avrebbe tolto un po' di inibizione.

Ancora lavori in corso sulla prima tavola.

DT: Il primo passo toccava a me: avrei dovuto inventare delle scenografie prendendo come spunto le nostre montagne. Acrilici alla mano, ho ripreso la piccola montagna rossa che avevo fatto un mese prima [ora nella collezione Topipittori, NdR], e l’ho ingrandita. Ho lavorato con grande serenità ma anche con una punta di agitazione, perché desideravo dare a Simone una tavola che gli piacesse, per metterlo nella condizione di lavorare bene. Ho cercato di trattare la superficie nel modo più curato possibile, pur essendo consapevole di potermi ritrovare, alla fine, con un risultato molto lontano da questo primo passaggio pittorico. L'idea che Simone mettesse le mani su una mia tavola mi entusiasmava: ho una grandissima stima di lui e sapevo che avrei imparato molto; e che il risultato sarebbe stato bello e di importante per noi, per la nostra esperienza, al di là del concorso.

La prima tavola nella versione finale.
SR: Daniela ha preparato la prima tavola e sono andato a prenderla a casa sua: un paesaggio bellissimo!
Tra me e me ho pensato: «E mo' so cca...!» Non è facile raccontare qualcosa e inserire dei personaggi senza stravolgere il lavoro dell'altro. Infatti, ci sono volute un paio di settimane per capire che non potevo non stravolgerlo.
Così ho ricalcato la punta della montagna su carta velina (per avere i riferimenti), ho ridipinto la montagna cercando di riprendere il più possibile il cielo già colorato di Daniela, ho spostato la montagna come se fosse aperta, spaccata da un gigante che ci viveva dentro e ho aggiunto una teoria di personaggi che corrono verso qualcosa (o scappano da qualcosa).
Quando ho restituito la tavola a Daniela, per i suoi interventi, mi sono portato a casa due nuove basi su cui lavorare.


La seconda tavola.
DT: Terminata la prima tavola, le altre sono venute di conseguenza: un’immagine tirava l’altra. La seconda era un paesaggio roccioso una dominante cromatica blu; la terza due case speculari, con l’idea di far giocare i personaggi che aveva aggiunto Simone sia all’interno che all’esterno di queste costruzioni.
Anche queste due tavole hanno subito cambiamenti: per dare continuità e coerenza alla sequenza delle immagini, nella seconda siamo tornati al rosso; nella terza è rimasta solo la casa di sinistra (ma solo perché non avevamo il tempo di realizzare anche l’altra). Abbiamo continuato così fino alla fine, aggiustando mano a mano il tiro dove ci sembrava necessario, seguendo le tracce e e i segnali che l'altro ci lasciava.

Lavori in corso sulla terza tavola.


SR: Lavorare insieme è stato difficile, ma non troppo. In fondo, quello che facciamo, come illustratori, non ci appartiene mai completamente: le tavole vengono riprodotte e stampate in migliaia di copie e, spero, usate, manipolate, sporcate, modificate da mani bambine. Serve solo un po' rispetto per farlo guardandosi negli occhi; e un po' di coraggio per guardarlo fare.

DT: Siamo partiti entrambi con un certo pudore: non è facile mettere le mani su un'espressione così intima della personalità di un altro. Ma questo limite, come tutti gli altri che abbiamo incontrato e che all’inizio ci sembravano ostacoli insormontabili si sono rivelati, alla fine, un pretesto per essere più determinati a trovare la soluzione giusta.

La terza tavola.

SR: Il momento chiave di questo processo? Per me il punto di svolta è arrivato quando ho capito di dovermi occupare del progetto con molto distacco: come se dovessi accudire il figlio di qualcun altro.

DT: Per me è stato quando Simone mi ha mostrato il lavoro che aveva fatto sulla prima tavola. Sono rimasta di sasso: era stupenda! Aveva avuto il coraggio di scoperchiare la MIA montagna, liberando un gigante.
In quel momento mi è sembrato che tutti i tasselli fossero finiti al posto giusto, che le illustrazioni finalmente avessero cominciato a vivere.

giovedì 28 novembre 2013

E domenica, tutti dai Topi!

Per la prima volta nella storia, si aprono le porte della tana dei Topi per ricevere amici, nemici e semplici conoscenti. Domenica, 1 dicembre, dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.00 vi aspettiamo con libri, sorrisi, ricchi premi e cotillons.
Giuriamo che il numero del citofono ci è stato attribuito e non abbiamo lottato con gli altri condomini per accaparrarcelo.

Accorrete numerosi.



Cliccate sull'immagine per ingrandirla!

mercoledì 27 novembre 2013

Checché ne dica Celeste

[di Cristina Bellemo]

La leggerezza perduta ha cominciato a viaggiare tra le persone, piccole e grandi, da un bel po’ di tempo. E subito mi sono resa conto che, delle persone, intercettava la sensibilità, i sentimenti, le emozioni in maniera sorprendente.
La scintilla che l’ha fatta nascere è stata una domanda bambina: in seguito al bombardamento mediatico di una parola, crisi, i miei figli, allora piccolini, mi hanno domandato che cos’è la crisi. Questa cosa che sembrava fare così tanta paura ai grandi (e dalla quale, dunque, i bambini come avrebbero potuto difendersi…).
Ho pensato di rispondere con una storia, riflettendo al contempo sul peso (niente affatto leggero) che le parole hanno per i bambini, quelle che noi adulti ci prendiamo il lusso di buttare in mezzo, con la leggerezza della superficialità, senza interrogarci sui loro significati, e sui loro effetti.
Il primo incontro ufficiale della storia, dopo quello familiare con i miei figli, divertiti più che altro dalla trama, e con Massimiliano, mio marito, instancabile e però severissimo ascoltatore (che mi ha dato ottimi suggerimenti), è stato quello con la giuria del premio Andersen, a Sestri Levante, che decise di assegnare alla storia nel 2009 il trofeo Baia delle Favole: l’unico caso in cui, al ricevimento del telegramma, sono riuscita a percorrere le scale di casa mia nel tempo record di tre secondi, quattro gradini alla volta.
La suddetta giuria aveva ravvisato nella storia echi ariosteschi, con particolare riferimento ad Astolfo che va sulla luna a recuperare il senno di Orlando. Interessante: Ariosto è tra le mie amate letture liceali e universitarie, ma se un riferimento c’è stato, è stato del tutto inconscio.


Consapevole, invece, è stato, in fase di scrittura, il tornare a uno dei miei libri del cuore: Il deserto dei tartari di Buzzati, soprattutto per l’ambientazione e l’atmosfera. E poi quell’ultima porzione di stelle del maggiore Giovanni Drogo è da sempre uno dei versi letterari che più mi appassionano.
Poi la storia ha proseguito il suo viaggio, raccontata ai bambini in tante, diversissime situazioni, ma raccontata spesso anche ai grandi, la maggior parte delle volte in seguito a loro esplicita richiesta.
Dopo la lettura, proponevo un gioco: se fossimo anche noi abitanti del castello di Celeste, a cosa saremmo disposti a rinunciare, per salvarci dal precipitare, e a cosa invece non rinunceremmo per nulla al mondo? Le risposte chiedevo di scriverle in tanti bigliettini, anonimi o no, a discrezione di ciascuno.

Tutte le volte il gioco è stato accolto con grande serietà, pur cercando io, di fronte a certe 'rivelazioni', di alleggerire i toni (senza mai banalizzare, però): come se fosse uno spazio a lungo atteso (spesso ho percepito una sorta di implicito finalmente!) per riflettere sul proprio superfluo e sul proprio necessario ma, soprattutto, per condividere le proprie riflessioni nel gruppo. Per raccontarsi ed essere ascoltati. Come se il proprio 'qualcosa da dire' fosse stato a lungo, e faticosamente, tenuto dentro, e ora avesse la necessità di essere detto. Detto a qualcuno disponibile ad accoglierlo. E forse era, questo, proprio un buttare via le cose pesanti, un alleggerirsi, un piccolo, momentaneo, transitorio ma significativo recupero della leggerezza perduta. Nel condividere i pesi.
In molte classi sono emerse, così, storie personali sconosciute, seppure dopo una convivenza di molti anni (come mai?); conflittualità sommerse e bisognose di essere portate alla luce, e risolte; piccoli tesori di esperienza che dovrebbero trovare mani disposte a raccoglierli e a conservarli per sempre.
La lista delle cose pesanti di cui liberarsi andava via via allungandosi. Un bambino di quinta elementare, una volta, mi ha detto che dal castello avrebbe buttato giù i sensi di colpa. I sensi di colpa in quinta elementare…
Naturalmente in questi elenchi variopinti comparivano i libri, i compiti a casa, fratelli o sorelle rompiscatole, genitori brontoloni, maestre (peraltro lì presenti e, in genere, assolutamente impassibili), brutti voti, e impegni noiosi (come la danza  a cui la mamma mi costringe ad andare).
Qualche volta veniva fuori il nome di una compagna o di un compagno. Cosa che, nelle normali dinamiche di relazione avrebbe potuto anche far sorridere, non fosse che a volte quel nome ricorreva nelle parole di così tanti bambini della classe, da far pensare a un rischio vero, e pesante, di emarginazione. Di cui occuparsi ben oltre il gioco della leggerezza perduta.
Ma si allungava anche la lista delle cose da tenere, clandestinamente, per sé, in barba a qualsiasi re Celeste, perché troppo preziose.


Ricordo un episodio, per me straordinario (tanto da avermi ispirato un racconto che è stato poi incluso in un mio libro), accaduto in una quarta. Una bambina, prima di dire qual era la cosa a cui non avrebbe mai rinunciato al mondo, aveva chiesto ai compagni di non ridere.
Ecco che subito si crea un religioso silenzio, animato più dal rispetto che dalla curiosità, credo.
«Il mio pupazzo dell’infanzia, con cui dormo tutte le notti» dice la bambina, e nel buttar fuori questa sua piccola gigantesca verità le scappano fuori anche le lacrime. Un pupazzo dell’infanzia in quarta elementare, quando ci si sente ormai troppo grandi per certe cose troppo da piccoli, è davvero una grande rivelazione.

Dopodiché le mani si alzano a raffica:
"Grazie che hai avuto il coraggio di dire questa cosa. Io avrei tante cose da dire, ma non ne ho il coraggio."
"Sai che anch’io, di notte, quando il papà non c’è, vado a dormire nel lettone con la mamma?"
"A me fanno paura le ombre sull’armadio, è tutta colpa di quell’albero in giardino."
"Anch’io ho un pupazzo, è una tigre. Il mio è un lupo. Il mio è un orsetto."

Alla fine la maestra mi ha ringraziato perché, mi spiega, i bambini hanno vissuto un momento di così grande intimità emotiva, di autenticità, come probabilmente non è mai accaduto.
Alcuni genitori, una volta, invece, si sono risentiti. E mi hanno fatto capire di non aver gradito: chissà che cosa avrebbero potuto spifferare i loro figli…
Un’altra volta, mi hanno ringraziato le ragazze di una quinta superiore: grazie a quel gioco erano riuscite a svelare ferite che bruciavano da un bel po’, a causa di relazioni difficili tra loro. Erano riuscite a parlarsi, e poi si erano sentite molto più leggére.
Ma io non avevo alcun merito, in quel gioco. Anzi, in quel gioco io scomparivo e, spesso, dopo un po’, nessuno si accorgeva nemmeno più che fossi lì.
Qualche valore, forse, ce l’aveva la storia, che però era già diventata altro da me, era di chi la voleva, aveva preso una vita e una strada sue. Se non altro, forse, il valore piccolo di aver creato un’occasione, aperto una breccia da cui osservare, ascoltare.
Però mi rimaneva, sempre, una preoccupazione, che appesantiva il significato di questi momenti straordinari, eppure così ordinari.


Che quel tesoro di emozioni, storie, esperienze, rivelazioni non ci fosse nessuno a raccoglierlo, a farlo risuonare, brillare, viaggiare. Che le parole scritte con forza dirompente, rivoluzionaria energia finissero chiuse dentro un cartellone e mai più ridette. Mai più seminate a far germogliare fiori. Ma lasciate a impolverarsi, e a ingiallirsi, in qualche sgabuzzino. E poi buttate via come robe vecchie, rinsecchite, e invece ancora, sempre, potenzialmente capaci di novità.
Mi pareva una irripetibile opportunità pedagogica buttata via.
Mi pareva che il gioco della leggerezza perdesse, così, un po’ del suo significato, soprattutto perché si faceva perdere significato alle meraviglie che i bambini avevano saputo deporre in quel baule clandestino. Le si copriva col silenzio, la dimenticanza, mentre erano cose degne di memoria. Memorabili.


E mi rimaneva un interrogativo, anche. C’è bisogno che arrivi un estraneo a narrare una piccola storia, per aprire questi spazi di dialogo? Forse sì, certe volte. La routine è sempre in agguato.
Recentemente ho riproposto il gioco a un gruppo di bambini della scuola dell’infanzia e di prima della scuola primaria. Giusto per sgomberare il campo dal timore che La leggerezza perduta sia una storia troppo difficile per i più piccoli, i bambini, senza bisogno di spiegazioni (pesanti!), hanno capito al volo il meccanismo.

"Io mi terrei gli amici."
"Io l’amore della mamma."
"Io il mio trattore giocattolo."


Che libertà, nell’esprimere queste scelte.
E anzi mi hanno rassicurato: la mia lanterna, ingombrante e piuttosto pesante, quella che uso la notte, quando scrivo, perché la fiamma viva che sfarfalla mi faccia compagnia, beh, tranquilla, quella te la puoi tenere. Checché ne dica Celeste.
Lungo questa strada di incontri, ho capito una cosa importante. Più che capito, forse l’ho ritrovata dentro di me, in quel sostrato profondo dove stava ad aspettare, insieme ad Astolfo, a Orlando e alla luna e ai senni di chissà chi, forse anche al mio.


Il necessario e il superfluo non sono (sempre) categorie oggettive. Fatti salvi i bisogni primari (su quali siano, poi, bisognerebbe aprire, anzi, spalancare un altro capitolo), il necessario e il superfluo hanno a che fare con la nostra identità. Ciò che è necessario per me, ciò che è superfluo per me.
Ho imparato a guardare con attenzione tutto ciò che (mi) succede ogni giorno, e ho visto che si sconvolgono immediatamente le scale di valori, e di priorità. E perfino il senso del rispetto ne beneficia.
Ricordo una festa, facevo la scuola media. Giocavamo al gioco della bottiglia e mi fu regalata una gomma da cancellare a forma di cuore.
Un oggetto decisamente superfluo, e anche piuttosto brutto.
In un eccesso di romanticismo dovuto all’età, ho giurato in quel momento che l’avrei regalata alla persona con cui avrei condiviso la vita.
Ho resistito molte volte alla tentazione di donarla, me la sono anche dimenticata per un po’. E alla fine l’ho regalata a mio marito Massimiliano.
Per me quella gomma non è affatto un oggetto superfluo. Checché ne dica Celeste.

Ricordate che, sabato, 30 novembre, alle ore 17.30, Alicia Baladan, Cristina Bellemo e La leggerezza perduta vi aspettano allo Spazio Libri Laboratorio la Cornice di Tommaso Falzone. Letture di Antonella Capetti.

Tutte le immagini a corredo di questo post, eccetto la copertina del libro, si riferiscono a schizzi, prove, disegni preparatori realizzati da Alicia Baladan, che ringraziamo per averli resi disponibili, nel corso della progettazione di La leggerezza perduta.

lunedì 25 novembre 2013

I bambini leggono/5. Teresa, Caterina e il Piccolo Principe

[di Marta Sironi]

Lo scorso mercoledì, Giovanna Zoboli ha deciso di farci un regalo: presa da raptus consumistico ha risposto, senza troppo pensare, a una proposta di sconto giunta per newsletter per lo spettacolo Il piccolo principe, alla sua seconda stagione al teatro Franco Parenti, a Milano. Per fortuna, la nostra Giovanna, sempre molto impegnata a diffondere la buona letteratura illustrata per ragazzi, a causa di un impegno (preso da mesi!) ha dovuto rinunciare ad assistere alla lettura scenica di Sonia Bergamasco (il piccolo principe) e Fabrizio Gifuni (voce narrante e tutte le altre ‘comparse’), accompagnati dalle musiche di Rodolfo Rossi (qui un'intervista sullo spettacolo ai suoi interpreti).
Al suo posto ci siamo andate noi, e ce la siamo proprio goduta. In verità i biglietti erano due e da buona ‘asina razionale’ ho pensato di andarci con mia figlia Caterina: otto anni, instancabile ascoltatrice (e lettrice) di racconti. Al momento di uscire, però, l'altra mia figlia, Teresa (cinque anni e mezzo), si è messa scarpe e giacca e non ha voluto sentire ragioni.
Sul palco, niente scene, niente costumi: si tratta di una raffinata lettura scenica risolta con i soli movimenti del corpo, l’espressività della recitazione e il virtuosismo degli attori (imperdibile la volpe!), l’uso delle luci e la presenza tattile della musica.
Caterina e Teresa sono state rapite dal racconto – un’ora e mezza senza pausa – tanto che alla fine avrebbero voluto una replica successiva (in effetti, Sonia Bergamasco riprendeva subito dopo con la sua Karénina. Prove aperte di infelicità, ma l’ho saputo solo il giorno successivo e forse avrebbe messo a dura prova il loro entusiasmo da neofite…).


Il ritorno a casa è stato tutto una finzione teatrale, alternata a insistiti inviti a tornare a teatro il giorno dopo, a rivedere Il piccolo principe. La recita era alle 19.30 e in sala c’erano altri bambini delle elementari. Un gruppetto lo conoscevamo, perché compagni di piscina - e per coincidenza a nuotare si va proprio il mercoledì, tanto che la micidiale somma “tempo pieno + piscina” lasciava immaginare un immediato sonno profondo sulle poltrone del teatro: alcuni bambini non hanno smentito le previsioni e all’uscita lamentavano la noia soporifera ‘del film’ (sì, l'hanno chiamato proprio così…).


C’erano però tanti altri bambini di cui non ho sentito i commenti, ma il silenzio in sala, per tutta la durata dello spettacolo, credo sia garanzia di un diffuso apprezzamento. Insisto nel dire che non si tratta di uno spettacolo per bambini, pensato per divertire a tutti i costi, ma di teatro vero, quello d’antica tradizione e che continuerà a sperimentare le possibilità espressive del corpo e della voce senza bisogno di effetti speciali, facendosi accompagnare dall’altrettanto magico potere della musica e della luce. L’esperienza mi ha confermato che la separazione di opere per bambini e adulti è in parte fittizia: ci sono cose universalmente belle che i bambini sono felicissimi di incontrare sul loro cammino. Ho anche pensato che, al di là dei futuri raptus consumistici di amici distratti, dovremmo andare più spesso a teatro, un’occasione non solo di conoscere grandi testi e le loro infinite possibilità interpretative, ma anche e soprattutto di vedere da vicino la magica metamorfosi espressiva del corpo umano.


venerdì 22 novembre 2013

Il pieno respiro della volta stellata

Di Elsa Morante, in questo blog, ha scritto, nel 2011, Luisa Mattia.
Due anni fa, infatti, dopo avere scoperto che Luisa condivideva con noi un folle amore per Le bellissime avventure di Caterina, libro scritto da Elsa Morante a tredici anni (e pubblicato da Einaudi dal 1942 a oggi; da un certo momento in poi col titolo di Le straordinarie avventure di Caterì dalla trecciolina), le chiedemmo di scrivere un post. Dopo qualche riga di preambolo, Luisa scrive:

Non sappiamo granché della sua infanzia romana, passata tra i libri e l’immaginazione. Non sappiamo come vestisse né quale fosse il gusto di gelato preferito. Non sappiamo quale fosse il giocattolo più amato. Sappiamo che amava i gatti e i grandi cappelli, che aveva occhi grandi e lo sguardo severo, che volentieri sorrideva e faceva una smorfia da monella. Si vede bene, nelle foto.
Sappiamo, anche, quale fosse il suo gioco più bello, quello che maggiormente la attraeva e che, con allegria ostinata, praticava: raccontare. Non si vede dalle fotografie ma da un libro.


Oggi, Einaudi per la gioia nostra, e sono certa, di Luisa (anche perché questi “aneddoti” attestano tutto ciò che lei ha osservato), ha pubblicato un libretto imperdibile per chi ama questa scrittrice, ma non solo. Si intitola Aneddoti infantili e lo definisco libretto esclusivamente in relazione al ridotto numero di pagine. Grazie a questo libro per il quale non mi viene in mente altro termine che “miracoloso”, oggi abbiamo accesso all'infanzia romana della scrittrice. Non so se alla realtà di questa infanzia, ma certo al suo mito, che poi è quello che ci interessa, considerato di chi stiamo parlando. E non perché come scrittrice Elsa Morante sia banalmente definibile come tale, ma perché, insieme ad Annamaria Ortese, questa scrittrice, come nessun altro, ha raccontata la narrazione mitica che l'infanzia tesse incessantemente intorno al mondo.
E, detto questo, non aggiungo altro, se non che in modo esemplare la Morante sembra essere appartenuta, fin dai primi istanti di vita, a quel daimon di cui parla James Hillman in Il codice dell'anima, cioè quella figura di destino che dalle origini informa la vita di ogni essere umano e la conduce.
Ho dovuto rileggere più volte il libro per capire quale brano proporre in lettura. Non il più bello, non il più luminoso, non il più commovente, non il più esilarante, non il più arcano. Ma quello, forse, che dà ragione di tutti questi registri. È tratto da Il mondo Marte è cascato.

Viaggiando per la città in tranvai, noi tre fratelli vedevamo ricchissimi palazzi e giardini chiusi da alte cancellate. Decidemmo di impadronircene ed io per prima ne diedi l'esempio. Un giorno, attirata dalla facciata gialla della Manifattura Tabacchi, gridai:
   - La Manifattura Tabacchi è mia!
    - E il Palazzo degli Esami è mio! - rispose il mio fratello maggiore.
Allora il mio fratello minore, tremando per l'ansia e affannando in fretta in fretta aggiunse:
    - Il Colosseo è mio.
Il giorno dopo, il fratello maggiore dichiarò che la piazza del Colosseo gli apparteneva, e questo portò ad una zuffa sanguinosa, perché la piazza comprendeva appunto lo stesso Colosseo, già da un giorno di proprietà del fratello minore. Grazie alla mia mediazione si venne ad un accordo, e fu deciso che il mio fratello maggiore avrebbe restituito la piazza del Colosseo contro la cessione della Piramide di Caio Cestio da parte del mio fratello minore.
Da allora, la nostra dichiarazione di proprietà di ogni palazzo o monumento veniva seguita frettolosamente da una consimile dichiarazione per le piazze e le strade circostanti. Siccome varie zuffe abbero luogo perché spesso accadeva che uno di noi s'impadronisse di un sito e l'altro minaccioso urlasse: «L'ho già detto io», ci avvezzammo ad elencare scrupolosamente in un quadernetto le nostre rispettive proprietà, facendo precedere l'elenco dal disegno di una testa di morto.
Bene. Ma che avvenne quando ci trasferimmo a Tre Ceci, paesello composto di casacce tutte rotte e di bassi pollai? Non ci degnammo neppure di guardarlo. Ma una sera che sopra di noi si apriva nel suo pieno respiro la volta stellata, l'orgoglio di un'idea magnifica mi gonfiò le vene e gridai:
    - Il mondo Marte è mio!
    - La Luna è mai, - soggiunse subito il mio fratello maggiore.
E il mio fratello minore, pallido per lo sforzo, dichiarò:
    - Il Sole è mio.
Così ci impadronimmo pure dell'Orsa e delle principali stelle e pianeti. Ma qui comincia il mio trionfo. Perché se i miei fratelli più svelti e robusti, possedevano un maggior numero di stelle, neppure tutte le loro stelle riunite, dai lunghi nomi cercati sull'Atlante, valevano il mondo di Marte. Pallidi per l'invidia mi udivano magnificare le qualità del possedimento: nel mondo Marte le signore portavano in testa, per cappello, bei giardinetti con piante vere, oppure girandoline che scoppiavano e facevano i fuochi d'artificio; e, al posto della sciarpa, serpenti a sonagli. Nel mondo Marte i cavalli avevano la criniera fatta di fuoco vero, e il cavaliere galoppando si accendeva la pipa. E mica c'erano le automobili, perché la gente aveva un motorino nella pancia, con annesso un fornelletto per cuocere le uova e tutto. E si poteva puntare un semplice dito della destra, e sparare una pallottola come con la pistola. I fratelli cercavano di emularmi, dicendo che nella Luna i gatti comprano il giornale e le guardie dormono dritte in piedi. Ma sì! Ci corre.
Allora i miei fratelli fondarono una società ai miei danni. Con finta indifferenza li vedevo confabulare e lanciarmi occhiate bieche; finché, acquistato un quaderno di cinquanta fogli, si accinsero a un'opera misteriosa. Nessuno poteva conoscerla o gettarvi uno sguardo sia pure distratto; ma dal feroce atteggiamento degli autori, i quali nel compilarla ora arrotavano i denti, ora spalancando gli occhi mostravano la lingua, ora gettavano spaventose imprecazioni, oppure in disaccordo circa una variante del testo, furiosamente, lottavano, si capiva che quel libro doveva contenere terribili segreti.
Un giorno, in assenza dei fratelli, furtivamente frugai nel loro cassetto e avida corsi al quaderno. Era un'opera in vari capitoli dal titolo:
Il mondo Marte è cascato.

L'aneddoto ha una chiusa epocale. Dieci righe che, ispirata dalla perfidia di Elsa, non vi rivelo. Come lei dovrete conquistarvi, a rischio dell'incolumità, il segreto di quel quaderno di cinquanta pagine.

mercoledì 20 novembre 2013

La Casa delle Meraviglie

[di Valentina Colombo]

Circa tre anni fa, Loredana Farina, che conosco per essere membro del gruppo di lettura Alle 9 da Babar, e che è diventata una mia cara amica, mi ha chiamato chiedendomi di partecipare a una sua "impresa". Ha usato, me lo ricordo bene, proprio questa parola, e il perché è presto venuto alla luce.
Si trattava di scrivere un libro sulla Emme Edizioni; di mettere in piedi una ricerca filologica, storica, metodica; di fare uno studio serio, approfondito e circostanziato sulla casa editrice fondata da Rosellina Archinto nel... 1965 o 1966?
Non scherzo, ci abbiamo messo un po' a capire se il primo libro fosse uscito nel '65 o nel '66. Non è stato facile rispondere a domande così basilari. Lo sa bene anche Alessandra Mastrangelo, bibliotecaria di mestiere, che per tutti questi mesi ha saltato da una biblioteca all'altra, da un ufficio all'altro, da un sito web all'altro, portando a termine, con fatica ammirevole, la missione di ricostruire il catalogo della Emme Edizioni.
Loredana ha alle spalle una storia da editore (è la fondatrice della casa editrice La Coccinella e massima esperta di libri gioco) ed è una donna acuta e testarda, precisa e rigorosa. Se non fosse stato per questo suo estremo rigore, non sarei qui a parlare di questo libro, che oggi, stampato e rilegato, si intitola La Casa delle Meraviglie.

Una delle prove di stampa de La Casa delle Meraviglie

Avventurarsi alla ricerca di informazioni sulla Emme è stato affascinante e sfiancante.
Oggi, ci sono database, registri, OPAC che ci aiutano. Ma negli anni Sessanta le cose non stavano esattamente così. I libri per bambini non sono uno di quei tipi di libro che le persone sono abituate a conservare (se non in rari casi). E anche solo ritrovare le prime edizioni, per vedere come fossero fatte, cosa ci fosse scritto sul colophon, che dimensioni avessero, è stato complesso.

1967, il primo catalogo della Emme Edizioni con la copertina di Aoi Huber Kono.
Oggi c'è internet, c'è "mamma Google" a cui chiedere tutto e che tutto sa. Ma sulla Emme Edizioni di quegli anni, se cercate, c'è poco, pochino, pochissimo. Quasi nulla, se non qualche cenno sulla mostra realizzata a Bologna, a Sala Borsa, da Hamelin e sul bel libro edito dalle edizioni Giannino Stoppani, Alla lettera M. Qualcosa in più su Rosellina Archinto, sì, ma soprattutto sugli ultimi anni della sua attività, come editore della Archinto Edizioni.

Rosellina Archinto
La fortuna è stata che la signora Archinto, lungi dal sottrarsi alle nostre richieste, si è invece generosamente prestata alle sessioni di interviste con Loredana. Chiacchiere in cui è emerso pian piano un quadro, una vita intera: incontri, amicizie, scontri, intrecci, collaborazioni. Il frutto di questi lunghi racconti lo troverete nella prima parte del libro; otto interviste per otto tappe della vita di Rosellina Archinto: dall'infanzia a New York, da Milano Dove alla Emme Edizioni.
E gli albi? E i saggi della collana Il Puntoemme? E L'Asino d'Oro? Con precisione scientifica, Loredana ha scelto alcune persone dalle competenze e dagli sguardi più diversi, distribuendo loro i compiti come il direttore a un'orchestra.
Se anche non vi interessasse nulla della Emme Edizioni, questo libro vi insegnerà comunque molte cose. I libri pubblicati dalla Emme sono 756, secondo le ricerche che ha fatto Alessandra. Impossibile parlare di tutti, nel volume, anche se confesso, li abbiamo praticamente visti tutti, avuti tra le mani o per lo meno sbirciati in foto o documenti d'archivio. La casa di Loredana straripava di libri Emme, e il mio computer anche.
Roberto Denti con Rosellina Archinto alla Libreria dei Ragazzi di Milano
Loredana ha avuto le idee chiare sin dall'inizio. Bisognava far capire a chi avrebbe letto il libro ("quelle venti, trenta persone che lo faranno, che i cinquanta lettori del Manzoni sono un'utopia", ci dicevamo fra noi, ridendo) che questa cosa, apparentemente banale, del fare i libretti per i piccoli, di banale non ha proprio nulla. Che in quegli anni, per me che ho superato i trenta come per chi è già nonno, questi libri sono stati importanti. Che per l'economia del nostro paese, quella che ha a che fare proprio col vile denaro, per la crescita culturale degli italiani (e non solo), per la scuola e le biblioteche, questi libri hanno segnato un prima e un dopo. Roba non da poco.

La seconda parte del libro fa proprio questo: traccia una serie di sentieri all'interno dell'intricato mondo del catalogo Emme. Si parla di come si facevano i libri, di chi li faceva, di cosa si voleva trasmettere, di cosa succedeva intorno alla casa editrice; si parla anche di libri in viaggio da un editore all'altro, in tutto il mondo; si parla di scrittori famosi e aneddoti curiosi.

Catalogo dei 10 anni della Emme Edizioni con copertina di Oski.

E quando si arriva alla fine del libro e si legge quel lungo elenco di titoli pubblicati, in ordine cronologico, si trovano tanti nomi conosciuti, e altri meno, titoli che sono passati sotto i nostri occhi, magari all'università, o titoli sconosciuti o di cui forse, talvolta, abbiamo solo sentito parlare.
Quando si ha in mano La Casa delle Meraviglie si capiscono le origini di molti dei bei libri che riempiono le librerie oggi.

Perché mettersi in un'impresa così faticosa e difficile? Un pomeriggio, un tè fumante davanti e una pila di circa cinquanta libri Emme da catalogare e verificare, Loredana mi ha detto questa cosa, press'a poco: "Sai Valentina, senza certi libri io e te non faremmo questo mestiere, ed è quasi un dovere farlo sapere a tutti, che i libri per bambini sono una cosa che ti entra dentro e poi non ti lascia più, anche se non vuoi".
Io scommetto che chiunque aprirà questo libro troverà una traccia di sè, un colore, un segno, una parola, indipendentemente da tutto. E magari non avrà nemmeno sentito mai parlare della Emme Edizioni di Rosellina Archinto.


Quindi spero di vedervi in tantissimi, domani sera, 21 novembre, alle ore 19 a Palazzo Reale (la sala è quella di destra, al piano terra, guardando il palazzo c'è una porta a vetri ben visibile). Insieme a noi, a Loredana Farina e a Rosellina Archinto, ci saranno anche Irene Bignardi e Salvatore Gregorietti, che introdurranno il libro e racconteranno alcune interessanti cose, che non vi svelerò.  E intorno a voi, potrete vedere alcuni dei libri di cui si parla, in mostra con Inventario fra le parole e le immagini della Emme Edizioni, 1966-1985, esposizione che rimarrà aperta fino al 5 dicembre (e di cui abbiamo parlato qui).

Un'ultima informazione: Loredana Farina, insieme ad ABCittà, ha preparato una mostra itinerante sulla Emme Edizioni che può essere noleggiata dalle biblioteche di tutta Italia o da chi ne farà richiesta (scuole, associazioni e chi più ne ha più ne metta). Accanto a questo allestimento, è disponibile anche un percorso di laboratori per grandi e piccoli tutti dedicati agli albi. Se volete saperne di più, il contatto è qui.

lunedì 18 novembre 2013

[art. 29] > identità/educazione

ovvero Katrin Stangl per Bologna città delle bambine e dei bambini 2013

[di Hamelin Associazione Culturale]

Si dice spesso che siamo circondati da storie, ed è vero. Basta guardarsi intorno per vederle e sentirle e viverle. È facile coglierle nei libri, nelle esperienze, nei ricordi. Meno scontato è trovarle in un articolo della Convenzione ONU sui Diritti per l’Infanzia e l’Adolescenza. Eppure anche l’articolo 29 della Convenzione racconta, in un linguaggio forse troppo solenne e dal sapore ottocentesco, una storia: quella dell’educazione dei bambini e delle bambine, dell’educazione come sviluppo del rispetto della propria identità e delle identità altrui. La storia dell’articolo 29, con le sue mille derivazioni e interpretazioni possibili, è stata scelta per animare le attività di Bologna città delle bambine e dei bambini 2013 organizzata in occasione della Settimana dei Diritti per l’Infanzia e l’Adolescenza (16-24 novembre 2013), cui Hamelin Associazione Culturale ha voluto partecipare raccontando una storia, anzi due.


La prima storia nasce, com’è facile presumere, da un libro, Quanti siamo in casa di Madalena Matoso e Isabel Minhós Martins, edito da Topipittori. È un racconto a scatole cinesi, una narrazione nella narrazione nella narrazione. Il libro è narrato in un progetto che è diventato un corso di formazione, che racconta questo albo e tanti altri. Quanti siamo in casa si è quindi trasformato in un percorso narrativo in cui le storie, quelle degli albi illustrati in particolare, sono lo strumento principale di riflessione, confronto e dialogo su temi complessi come l’identità, le differenze e, soprattutto, la famiglia nelle sue diverse e molteplici forme.

A renderlo speciale è, da una parte, un tenace gruppo di lavoro che si è creato per realizzarlo e che comprende l’Ufficio Pari Opportunità e Tutela delle Differenze del Comune di Bologna, Biblioteca Salaborsa Ragazzi, Cassero – Gruppo Scuola, Centro di Documentazione Cassero e Famiglie Arcobaleno, e dall’altra i destinatari cui è rivolto, e cioè gli/le insegnanti dei nidi e delle scuole d’infanzia. Perché non è mai troppo presto per educare, a proposito dell’articolo 29, al rispetto e alla valorizzazione di tutte le possibili forme di identità e famiglia.

Si sa però che le storie sono come le ciliegie, una tira l’altra, e da Quanti siamo in casa si è arrivati a Forte come un orso. Parlare di diritti corrisponde spesso – purtroppo – a scivolare in un terreno di parole svuotate di senso, perché tanto ripetute e scarsamente vissute. Diventa urgente allora ragionare sul come si dicono le cose e per Bologna città delle bambine e dei bambini 2013 si è scelto di farlo attraverso le figure, che spesso, appunto, valgono più di mille parole. Le illustrazioni icastiche di Katrin Stangl non possono che balzare agli occhi e far gridare: “Perfette!”; i protagonisti del libro dell’autrice tedesca sono tutti affermazioni, scritte a lettere maiuscole, di come si possa dire l’infanzia e di come questa stessa si racconti. Stangl interpella gli animali, gli esseri più simili ai cuccioli d’uomo, per descriverne le emozioni, i perturbamenti, i punti di forza e le debolezze; un confronto faccia a faccia, che prende corpo nelle immagini di Forte come un orso (Topipittori, 2013), e mette su carta il primo diritto assoluto dell’infanzia. Quello a essere tale.


Saranno l’autrice e questi bambini venuti dalla Germania, ma che somigliano in tutto e per tutto a quelli che sono qui o anche molto lontano nel mondo, a raccontare la città delle bambine e dei bambini. Innanzitutto, accogliendo “in grande stile”, attraverso delle gigantografie di Forte come un orso, i lettori che entreranno in Salaborsa Ragazzi dal 19 novembre all’8 dicembre 2013. Poi attraverso la voce e le mani di Katrin Stangl, che sarà a Bologna venerdì 22 novembre per un momento d’incontro e di dedica del libro alle ore 17.30 presso ZOO, e sabato 23 novembre alle 17.15 in Salaborsa Ragazzi. Qui darà vita a un laboratorio sul libro e sulla sua tecnica dell’incisione, a cui sono invitati tutti i bambini dai 5 ai 9 anni, purché selvaggi come tigri, timidi come cerbiatti, operosi come api….


P.S: Conclusa la mostra, tre coppie resteranno a fare capolino fra le parole e le figure dei libri della biblioteca. Venite a cercarle!

P.P.S: se siete a Bologna in quei giorni vi consigliamo anche questo.

venerdì 15 novembre 2013

L'arma dimenticata


A sfogliare, leggere, osservare Inside the Rainbow: Russian Children's Literature 1920-1935: Beautiful Books, Terrible Times, mi sono tornati in mente certi titoli della stampa dell'epoca della Rivoluzione d'Ottobre. «I Rossi stanno rovinando i bambini russi», tuonava la prima pagina del New York Times nel 1919.

E l'idea che questo fosse «parte di un deliberato piano bolscevico corrompere e depravare l'infanzia [...] per addestrare i bambini a diventare i futuri propagandisti della dottrina materialistica e criminale di Lenin» deve essere straordinariamente resiliente e, in certa misura, rassicurante.

Non è, infatti, un caso che nella prefazione - per certi versi interessantissima - del libro, Philip Pullman si domandi: «Dove stavano i commissari e i segretari di partito mentre sotto il loro naso si costruiva questo paese delle meraviglie dell'arte moderna?»



Una domanda retorica, quella di Pullman, che attende una risposta sbagliata. Questa epoca aurea del libro per ragazzi con le figure (e aggiungere "russo" sarebbe riduttivo, visto che l'onda che ha provocato si sta ancora propagando, e con forza incredibile, nel mare magnum dell'editoria per ragazzi mondiale) non nasce "nonostante" o "contro" una rivoluzione distratta, ma scaturisce proprio dalla rivoluzione stessa, alimentata dal suo spirito più puro.



La consapevolezza dell'importanza dei libri per ragazzi nella prima Russia rivoluzionaria è sottolineato da una frase dello scrittore Lev Kormchy che, in un articolo comparso già nel 1918 sulla Pravda, sotto il titolo L'arma dimenticata, scrive: «Nello sterminato arsenale che la borghesia ha utilizzato per combattere il Socialismo, i libri per bambini hanno avuto un ruolo determinante. Nello scegliere in nostri cannoni e le nostre munizioni, ci siamo dimenticati di quelli che diffondono veleni. Dobbiamo strappare quest'arma dalle mani del nemico.»





Così, in un'epoca in cui la Russia era ancora attraversata da una sanguinosa guerra civile, combatteva un'invasione delle potenze occidentali, soffriva gli effetti devastanti di una carestia e cercava disperatamente di ricostruire un'economia a pezzi, le migliori forze intellettuali del paese furono impegnate a discutere i dettagli più sofisticati della letteratura per ragazzi.





D'altra parte, nella Russia dell'epoca, i bambini avevano acquisito un'importanza enorme. Come si legge nel saggio introduttivo di Arkady Ippolitov, curatore dell'Hermitage: «Per far sì che i bambini fossero pronti al radioso futuro che veniva costruito per loro, loro stessi dovevano essere ricostruiti... Per questo l'istruzione dei bambini era questione della massima importanza nella nuova Terra dei Soviet. E sappiamo che i libri hanno un ruolo piuttosto importante nell'educazione dei bambini.»





Di fare questi libri fu incaricato un funzionario ucraino cresciuto in Svizzera, membro di quella élite culturale cosmopolita attratta dalle idee rivoluzionarie dell'epoca: Anatoly Lunacharsky, il capo del Commissariato del Popolo Sovietico per i Lumi, noto con l'acronimo Narkompros. L'idea era semplice: si doveva costruire una nuova società da zero. Modellare e ispirare gli uomini affinché fossero gli attori e i promotori del nuovo mondo meraviglioso che li attendeva era un compito difficile, che doveva essere affidato ai migliori artisti ed educatori. Così, scrittori dell'avanguardia, artisti, registi cinematografici e musicisti - molti dei quali amici personali di Lunacharsky -, presero parte con entusiasmo al grande esperimento.





Chiaramente, i libri per gli uomini nuovi dovevano sovvertire i fondamenti di quelli avevano preceduti. Era necessaria una rivoluzione tanto nei soggetti quanto nell'estetica. Nacque così la nuova fiaba, quella che parlava del mondo reale: di lavoratori, industrie, tecnologie, trasporti, cibo, oggetti quotidiani, animali, edifici. E una nuova estetica che attingeva a piene mani al suprematismo, al futurismo e al costruttivismo, con le loro grandi campiture di tinte piatte, le forme geometriche e sintetiche, il ricorso alla fotografia e al photomontage; e sul fronte del testo reinventava la rima e la prosa con gli strumenti di un surrealismo ante-litteram.





Per quanto questi argomenti possano sembrare aridi, è evidente che i creatori di questi libri si sono divertiti un mondo a farli. E sono riusciti a farli con grande libertà, della quale era garante Lunacharsky. Ma, essendo la Russia, per l'appunto, la Russia, questo non significava che funzionari occhiuti non fossero attenti a ogni immagine e a ogni riga che venisse pubblicata.



La vedova di Lenin, che era diventata funzionario del Narkompros con una specifica delega all'Istruzione, criticò aspramente l'antropomorfismo di certe illustrazioni, considerando un peccato non veniale la mancanza di realismo. E la censura colpì duramente un libro su un bambino che non si lavava perché la frase «Vergognati, sembri uno spazzacamino», era evidentemente e inaccetabilmente anti-proletaria. E, sempre, in tutto il periodo considerato dal libro, aleggiava minacciosa l'accusa di voler "divertire" e non "istruire", della quale furono vittime anche Marshak e Lebedev.



Ma questi lavori così scintillanti e innovativi contenevano in sé il seme della propria distruzione. Che si presentò sotto forma di un bel paio di baffoni folti. Non appena Stalin ebbe ben salde in mano le leve del potere si preoccupò di mettere un freno a tanta, scatenata e incontenibile creatività: non aveva più bisogno di rivoluzionari, ma di obbedienti esecutori. Il primo a essere deportato fu Osip Mandelstam. Lunacharsky ebbe un esilio dorato in svariate missioni diplomatiche. Altri morirono: nei gulag (Mandelstam e Bulatov), negli ospedali psichiatrici (Kharms), in prigione (Tretyakov) o per le conseguenze della detenzione (Zabolotsky e Zdanevich). Vladimir Mayakovsky fu suicidato con un colpo di pistola al petto.

Ci restano i libri. E tanta gratitudine.



Piccolo spazio pubblicità: oltre che su Amazon.it, potete trovare questo libro anche da Spazio b**k.

Post scriptum: Abbiamo usato la traslitterazione dal cirillico utilizzata nel libro. Sappiamo che qualche purista si lamenterà, ma ci è sembrato meglio restare coerenti con l'oggetto dell'articolo.